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Italia-Argentina, il paragone impossibile. E non grazie all’euro.

Claudio Borghi Aquilini-Alberto Bagnai, Dipartimento di economia della Lega, lettera al «Corriere della sera» (07.05.2018)
Caro direttore, abbiamo letto con una qualche sorpresa sul suo giornale l’opinione di Federico Fubini in merito alla (ennesima) crisi argentina, che potremmo sintetizzare così: «l’Argentina è in difficoltà, meno male che noi siamo nell’euro altrimenti lo saremmo anche noi». Ricordiamo al dottor Fubini e ai vostri lettori quattro concetti banali:

1. Argentina e Italia sono paesi profondamente diversi. In Argentina il settore agricolo pesa il quadruplo rispetto all’Italia (rispettivamente, 8% e 2% del Pil), e questo incide sulla composizione dell’export, che in Italia è composto per l’84% da prodotti manifatturieri, mentre in Argentina solo per il 31%.

2. Quando un paese si basa sulle materie prime o su prodotti agricoli grezzi, la sua prosperità dipende dai prezzi di questi ultimi sui mercati internazionali. Una caduta dei prezzi lo metterà in difficoltà qualsiasi moneta adotti o per quanta moneta stampi. Ciò vale, per esempio, per il Venezuela, se il prezzo del petrolio dimezza, e vale anche per l’Argentina: se il prezzo della soia crolla del 30%, come è successo nell’ultimo quinquennio, gli argentini devono tirare la cinghia e non c’entra se la moneta è il peso, l’euro o il dollaro.

3. Questo anche perché le materie prime hanno domanda rigida: se la soia dimezza non ingozziamo i nostri vitelli. Anche a causa di ciò dal 2010 l’Argentina è in deficit estero, cosa che ora la costringe ad alzare i tassi per farsi prestare i soldi che non guadagna piú esportando. La politica monetaria degli Stati Uniti, evocata da Fubini, c’entra, ma solo perché si innesta su questa fragilità strutturale. La situazione dei paesi manifatturieri è ben diversa, perché la domanda dei loro prodotti è elastica al prezzo, e a questo punto quale valuta si adotti e come la si gestisca diventa rilevante. Un «attacco speculativo» che ci costringesse a svalutare, renderebbe i nostri prodotti e il nostro turismo ancora piú convenienti per l’estero, aumentando il nostro surplus commerciale, cioè la nostra disponibilità di valuta pregiata, senza bisogno di alcun rialzo dei tassi. Se non credete a noi, fidatevi di un commentatore bene informato: «Euro più debole? Per noi sono piú i vantaggi che gli svantaggi» (Fubini, 11.03,2015).

4. Quanto precede spiega perché l’argentino Macrì, nonostante sia tutto «buon senso, riforme e prudenza» (a detta di Fubini), da quando ha preso il potere ha visto la sua valuta indebolirsi del 45% sul dollaro, senza riuscire a riequilibrare i conti con l’estero. Viceversa. Un altro presidente, l’ungherese Orbán, nonostante sia tanto cattivo e non faccia le riforme, ma anzi cacci F.m.i. fuori dal paese con la ramazza, pur non avendo l’euro, bensì il fiorinetto, va avanti tranquillissimo, grazie al suo surplus commerciale, e viene costantemente rieletto dai suoi concittadini. L’export ungherese è per l’83% composto da prodotti manifatturieri e per questo l’Ungheria ha beneficiato della flessibilità del fiorino. Lasciamo valutare al lettore a quale a paese l’Italia somigli di piú.

Speriamo di aver chiarito una volta per tutte che citare l’Argentina per sostenere che «l’Italia non è in crisi grazie all’euro» è un non sequitur, a meno che non si vogliano mandare messaggi politici (cose tipo: se passerà il referendum sulla Brexit, la Gran Bretagna sparirà nell’oceano), ma in questo caso andrebbero connotati come tali.

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