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MICHEA – DIFFICOLTÀ A FAR CAPIRE, NUOVE CLASSI MEDIE, URGENZA DEI COMPITI

C’è questa tendenza naturale del valore di scambio – a partire da un certo grado di sviluppo del sistema capitalistico – a emanciparsi progressivamente da ogni valore d’uso reale (accedendo da allora la merce allo statuto di semplice gadget, il cui consumo è diventato puramente ostentatorio e il cui pseudo-bisogno ha dapprima dovuto essere fabbricato dall’industria della moda, della pubblicità e del divertimento – prima di trovare il proprio principio di espansione nelle leggi eterne del desiderio mimetico), che spiega, in gran parte, le crescenti difficoltà politiche di fronte a cui si trova oggi il vecchio movimento di emancipazione degli individui e dei popoli. Finché il processo di accumulazione del capitale trovava ancora i suoi principali appoggi nella produzione di merci solide, riparabili e per lo piú concepite in funzione di veri bisogni umani – o di desideri realmente personali (bisogni e desideri la cui definizione concreta a ogni modo esige un accordo filosofico minimo sul significato di felicità e di vita buona) – rimaneva, in effetti, possibile accettare nelle grandi linee il progresso tecnologico esistente e, soprattutto, comprendere, con tutta la chiarezza richiesta, il senso della lotta sindacale e della battaglia socialista. Per esempio, dei lavoratori decisi a battersi contro la chiusura di un’impresa che fabbricava mobili di qualità, sistemi di illuminazione adeguati o apparecchi di riscaldamento robusti, semplici ed efficaci, non avevano alcuna difficoltà a convincersi che, difendendo cosí, con fierezza, il loro posto di lavoro e il loro savoir-faire, nello stesso tempo difendevano l’interesse dell’intera collettività (nel che avevano perfettamente ragione). E la maggior parte di loro erano del tutto capaci di immaginare un mondo in cui potessero prendere un giorno in mano il loro destino e controllare collettivamente questa produzione, in maniera di riorientarne le forme nell’interesse di tutti, piuttosto che in funzione del solo profitto di qualcuno (non è un caso se le prime rivendicazioni di autonomia portate avanti dai primi operai socialisti erano precisamente sorte in un’epoca in cui l’accumulazione del capitale conservava ancora un rapporto evidente con le nozioni di mestiere e di valore d’uso).

Al contrario, a partire dal momento in cui il sistema capitalistico – al fine di sormontare la «crisi degli sbocchi» che è a esso intrinseca (e anche, a quel tempo, al fine di stornare i lavoratori dalla critica rivoluzionaria, allora crescente) – andava a essere costretto a entrare nell’era del consumo di massa e del credito (che mira dapprima a estendere nel tempo i problemi legati alla crisi strutturale degli sbocchi), il dato politico doveva per forza di cose cambiare. Perché nella misura in cui il capitalismo (una volta liberato da tutte le sue iniziali limitazioni morali e religiose) portava a compimento la sua trasformazione in un sistema assiologicamente neutro[1], in cui ognuno – secondo la formula di Von Hayek [economista iper-sostenitore del dogma liberista, n.d.r.] – deve essere «libero di produrre, vendere o comprare tutto ciò che è suscettibile di essere prodotto e venduto» (detto altrimenti, di vendere qualsiasi cosa a chiunque), diventava chiaro che la sua nuova forma di crescita rendeva ogni giorno un po’ piú illusoria la l’idea (sempre cara, ai nostri giorni, a Toni Negri e Alain Badiou[2]) secondo cui lo sviluppo «naturale» della società mercantile tende di per sé a preparare la «base materiale del socialismo». In primo luogo, perché la «caduta tendenziale del valore d’uso» ([come dice] Guy Debord[3]) conduce ineluttabilmente a edificare una società che si allontana sempre piú dalle condizioni reali di un’esistenza umana degna di questo nome (infatti, quale uso emancipatore si potrebbe fare di un mondo interamente devastato dal cemento, dall’agricoltura industriale, dalle scorie nucleari, dall’onnipresenza dell’automobile e dei trasporti aerei o dall’incessante moltiplicazione dei gadgets tecnologici, tanto sofisticati quanto inutili e alienanti?). E poi perché la crescente necessità di imporre agli esseri umani, divenuti semplici «consumatori» – e in particolare ai piú giovani –, l’uso di prodotti e sevizi di cui non hanno alcun bisogno reale (se non precisamente quello di compensare il vuoto di un’esistenza cosí votata al consumo), esigeva logicamente la formazione di una nuova classe media (pensiamo alla figura del «giovane quadro dinamico» [già presente] nella letteratura degli anni sessanta […]), il cui sviluppo spettacolare, che comincia – in Francia – all’indomani della Liberazione, corrisponde innanzitutto all’«immensa estensione delle teste di ponte dell’esercito della distribuzione e dell’elogio delle merci attuali» ([come dice ancora] Guy Debord). Ora, non solo le competenze «moderne» e «trasversali» che cosí definiscono la maggior parte dei membri di queste nuove classi medie – mettendo da parte i veri ricercatori, tecnici o artisti – non possono, per principio, avere nessun uso reale al di fuori di una società fondata sul primato del valore di scambio (ed è chiaramente questo il caso, per esempio, di tutti coloro che oggi lavorano nella pubblicità, nel «nuovo management» o nell’industria della disinformazione mediatica e della cultura mainstream). Ma nella stessa misura in cui queste nuove classi medie – che, al presente, si sviluppano in tutte le grandi aree metropolitane del pianeta – tendono essenzialmente a raccogliere «gli agenti dominati della dominazione capitalistica» (André Gorz[4]), era parimenti inevitabile che finissero poco a poco per diventare – sotto l’effetto della loro situazione sociale contraddittoria e della cattiva coscienza che ordinariamente l’accompagna – una delle basi elettorali privilegiate della nuova sinistra liberale […]. E dunque, a tale titolo, il principale supporto sociologico di questo liberalismo culturale che è divenuto lo spirito del tempo – incontestabile e incontestato – della «società dello spettacolo».

Il problema è che la credenza costitutiva della sinistra in un «senso della storia» (la maestosa marcia in avanti del genere umano, dalla rivoltante «barbarie» originaria […] fino alla meravigliosa modernità occidentale […]) ha reso a priori molto complicata la critica radicale (o anche la semplice comprensione) di questa evoluzione, peraltro cosí logica, del capitalismo. In effetti, è già psicologicamente difficile, per un «uomo del progresso», accettare la vecchia idea socialista secondo cui gli individui avevano dovuto «sacrificare la parte migliore delle loro qualità di uomini per compiere i miracoli della civilizzazione» industriale moderna (Engels). Ma nessun progressista appena un po’ coerente (cioè intimamente convinto che “prima” era per forza peggio in tutti i campi) può ammettere senza tremare l’idea – tuttavia nuova – che una parte ormai decisiva, e soprattutto incessantemente crescente, della «ricchezza» materiale prodotta dal nuovo capitalismo di consumo (cosí come, naturalmente, il modo di vita «liberata» che ne rappresenta il rovescio culturale, e che è nato alcuni decenni fa negli Stati Uniti) contribuisce, nei fatti, a compromettere un po’ di piú ogni giorno la possibilità di edificare una società socialista decente. Donde la certezza, al momento indistruttibile – e che sta alla base di ogni sensibilità della sinistra moderna –, secondo cui ogni giudizio negativo riguardo agli effetti di questa permanente modernizzazione economica, morale e culturale, che il capitalismo di consumo necessariamente induce – il Piano Marshall e i «trenta gloriosi» [anni del Novecento – fino agli anni settanta, n.d.r.] vi hanno dato l’avvio – non possa provenire che da una colpevole «nostalgia» per un mondo «scomparso» o da un sinistra tendenza «reazionaria» volta al «ripiego su di sé» e alla «paura dell’altro» ([…] idee «nauseabonde» che potrebbero un giorno riportarci alle «ore piú scure della nostra storia»). Inutile, in queste condizioni, andare a cercare piú lontano la principale ragione filosofica dell’allineamento, oggi universale, della sinistra moderna al culto della crescita, della «competitività» e della «globalizzazione». Né, di conseguenza, quella del suo correlato abbandono di ogni critica – anche parziale – del mondo della Merce e dello Spettacolo. Ed è questa stessa incapacità della sinistra “ortodossa” di comprendere la natura rivoluzionaria dello sviluppo capitalistico (mai, nella storia dell’umanità, un sistema sociale e politico aveva – in un cosí breve tempo – cambiato a tal punto l’intera faccia del mondo) che parimenti spiega come il tempo stesso lavori ormai sempre di piú (all’inverso di quanto immaginavano i vecchi progressisti) contro la libertà e la felicità reali degli individui e dei popoli. È infatti chiaro che, quanto piú si tarderà a ristabilire le condizioni teoriche e pratiche di un ritorno alle intuizioni fondatrici della critica socialista originaria (stando del tutto attenti, va da sé, a riattualizzarne forma e contenuto), tanto piú il mondo crepuscolare che si fabbrica attualmente sotto i nostri occhi non potrà che rendere sempre piú difficile, lenta e dolorosa, l’indispensabile riconversione di una parte sempre piú grande degli «impieghi» esistenti in attività umane realmente creative e veramente utili a tutti (naturalmente sapendo che tutto dovrà sempre essere fatto – salvo a prendersi il tempo che occorre – in modo che la gente ordinaria debba sopportare il meno possibile il costo materiale e psicologico di tale riconversione)[5]. Con in sovrappiú il rischio, se veramente la presa di coscienza dei popoli continua a tardare troppo, che sarebbe l’idea stessa di una società decente – detto altrimenti, di una società nel contempo liberale, egualitaria e conviviale (e una società in cui alcuni hanno il potere effettivo di disporre a loro grado del tempo e della vita degli altri non corrisponde certamente a questi criteri) – a finire, alla lunga, per diventare definitivamente inconcepibile. Si misura cosí l’ampiezza e l’urgenza del compito che attende oggi gli amici […] del genere umano[6].



[1] Da assiologia: áxios (degno, valido) + lógos (discorso, analisi) = teoria dei valori. Assiologia neutra = nessuna teoria dei valori, e quindi nemmeno dei disvalori [n.d.t.].

[2] Alain Badiou (del 1937), filosofo, commediografo e autore francese, si situa nella (cosiddetta) «sinistra estrema» con il ’68, nel 1969 diviene docente universitario nell’Università di Parigi VIII (Vincennes-Saint Denis), che si presentava come bastione della «contro-cultura» (auto-dichiarata). Autore di una massa di lavori (da buon docente all’Università), si situa sostanzialmente sul marx-strutturalismo di Althusser – per cui, detto in sintesi iper-estrema: una struttura socio-economica si regge finché le intime “crepe” non l’affondano, e allora sorge una nuova struttura, preparata dalla precedente. Antonio (Toni) Negri sostiene posizioni simili, donde, per ambedue, il dispiegamento completo del capitalismo porterà, di per sé, al socialismo o comunismo, quindi la posizione “giusta” è quella di favorire la completa estensione del capitalismo stesso [n.d.r.].

[3] Guy Debord, autore e regista francese (1931-1994), nel 1957 concorre alla fondazione dell’Internazionale Situazionista, nella quale alcuni movimenti artistici e culturali (non solo francesi, ma anche europei) si combinano, puntando in primo luogo alla critica radicale della realtà capitalistica e, in particolare, dell’industria culturale. Il suo lavoro piú noto è La società dello spettacolo, del 1967, in cui indica la tendenza in corso e in atto alla trasformazione-riduzione dei lavoratori in «consumatori» nel sistema capitalistico [n.d.r.].

[4] André Gorz (1923-2007), nato a Vienna come Gerhart Hirsch (padre ebreo e madre cattolica), cresce in un contesto antisemita che induce il padre a convertirsi al cattolicesimo, nel 1930, e a cambiare il cognome. Inviato in Svizzera per evitargli l’esercito tedesco, si diploma nel 1945 all’École d’Ingénieurs dell’Università di Losanna in ingegneria chimica. Si accosta al pensiero esistenzialista di Sartre e nel 1949 trasloca a Parigi. Entrato nel giornalismo, nel 1955 diventa giornalista economico di «L’Express». Come elaborazione, dà un ruolo centrale alle questioni dell’alienazione e della liberazione, in una riflessione centrata sull’importanza dell’esperienza esistenziale e sull’analisi dei sistemi sociali in base al vissuto personale. Ne consegue una concezione emancipatrice del movimento sociale, in cui la liberazione individuale e collettiva si condizionano a vicenda – visione condivisa con Herbert Marcuse, amico ed esponente della Scuola di Francoforte, con pensatori quali Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Jürgen Habermas. È contro l’economicismo dell’ossificata “analisi” marxistica della società, contro la sottomissione della società agli imperativi dell’economia, contro lo strutturalismo (che pone centrale la struttura e nega soggetto e soggettività) [n.d.r.].

[5] Tanto piú che esistono almeno altri due ostacoli maggiori che una società di transizione (e, di conseguenza, il nuovo blocco storico popolare, che ne sarà l’anima e il motore) dovrà simultaneamente affrontare. Da una parte – ed è il limite storico dello «Stato del benessere» keynesiano – tutti i meccanismi di protezione sociale che ancora sussistono (essenzialmente per ragioni di governabilità del sistema liberale) restano finanziariamente basati su questa «crescita» sempre piú devastante, alienante e, a ogni modo, votata a stroncarsi presto o tardi contro l’iceberg ecologico (pensiamo, per esempio, a queste famose «terre rare», che esistono solo in quantità molto ridotta e da cui nondimeno dipende, per una componente essenziale, lo sviluppo continuo delle «nuove tecnologie»). E, dall’altra [parte], l’interconnessione crescente (in base all’apertura delle frontiere e alla «globalizzazione») di tutti i sistemi di produzione e di scambio esistenti rende sempre piú complessa la necessaria ricostituzione di poli di attività produttiva controllabili dai popoli, cioè quanto piú autocentrati possibile (per esempio, è chiaro che se ogni popolo non recupera molto alla svelta le chiavi della sua autonomia alimentare – il che già presuppone il mantenimento di una quantità sufficiente di terre coltivabili e quindi sottratte alla cementificazione generalizzata –, sono le condizioni stesse della sopravvivenza biologica che finiranno per dipendere interamente dalla strategia cinica delle lobbies agro-industriali e dalla cupidigia senza limiti degli speculatori internazionali). Ugualmente va detto che quanto piú attenderemo per troncare il nodo gordiano – e dunque per accettare di rimettere in discussione i nostri «desideri in materia plastica e i nostri sogni in nylon» (Elsa Triolet) –, tanto meno resteranno delle chances perché il processo di uscita progressiva dal capitalismo assomigli a un atterraggio “dolce”. Ma il fatto è, sfortunatamente, che non abbiamo altra scelta. Perché se crediamo di poter differire ancora a lungo questa indispensabile operazione chirurgica, è – piú o meno a lungo termine – l’incontro programmato con l’iceberg che diventerà inevitabile. E il prezzo umano da pagare, va da sé, sarà senza misura commensurabile. [Nota di Michéa al suo testo.]

[6] J.-Cl. Michéa, Les mystères de la gauche, Paris, Flammarion, 20142, Scolio G, , pp. 69-78 [corsivi dell’autore; trad. it. di M. Monforte].

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