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MICHEA – LE DUE FACCE COMPLEMENTARI DEL LIBERALISMO

Il liberalismo economico[1] (che esige l’abolizione da parte dello Stato di tutti i limiti all’espansione supposta “naturale” del mercato e della concorrenza) e il liberalismo culturale (che esige l’abolizione da parte dello Stato di tutti i limiti allo sviluppo supposto “naturale” dei diritti dell’individuo e delle «minoranze») sono – da un punto di vista filosofico – logicamente indissociabili (il che d’altronde non significa, beninteso, che non si possano trovare dissociati nei fatti nell’opera concreta di questo o quel pensatore, in base al suo grado piú o meno grande di coerenza). È dunque del tutto giustificato, da questo punto di vista, paragonare la logica liberale a un anello di Moebius, le cui due facce, a prima vista opposte, non presentano, in realtà, alcuna soluzione di continuità. Se, in ultima istanza, l’essenza del liberalismo economico si riduce al diritto di ciascuno di «produrre, vendere e comprare tutto ciò che è suscettibile di essere prodotto e venduto » ([… come dice Von] Hayek […]), in effetti ne consegue logicamente che ogni pretesa di limitare questo diritto in nome di una qualunque “preferenza”, morale, filosofica o religiosa (e, per un liberale, non possono mai esistere – nei campi che sfuggono alla scienza e alla tecnica – che delle semplici preferenze private) condurrebbe a distruggere le fondamenta stesse del libero scambio.

Ora, nella misura in cui il relativismo morale costituisce la chiave di volta ideologica del liberalismo culturale, quest’ultimo si presenta, quindi, come il solo complemento filosofico suscettibile di giustificare nella sua integralità il movimento storico che porta senza cessa il mercato capitalistico a invadere tutte le sfere dell’esistenza umana, ivi comprese le piú intime. Effettivamente, è solo sotto la sua protezione simbolica (in altri termini, sotto l’idea che ogni incastellatura normativa è necessariamente il frutto di una costruzione culturale «discriminante» e storicamente arbitraria) che può infine diventare concepibile, per esempio, liberalizzare il commercio delle droghe, approvvigionarsi sul mercato dell’adozione di «bambini desiderati» made in Asia (o in Africa), o anche – come oggi nel sud della Spagna – aprire scuole private di prostituzione, destinate a permettere alle giovani disoccupate di trarre un partito piú razionale dalle loro competenze inutilizzate. Del resto, basta esaminare un solo istante – se occorresse ancora convincersene – le conclusioni pratiche a cui immancabilmente conduce la volontà di mantenere, contro ogni prova contraria, l’idea surrealista per cui il liberalismo economico e il liberalismo culturale deriverebbero da progetti filosofici interamente distinti, perfino radicalmente opposti (a costo di forgiare, per questo, lo strano concetto di «liberismo», al fine di poter cosí cancellare ogni traccia di legame pericoloso fra il liberalismo di Adam Smith e il «vero» liberalismo). Bisognerebbe allora ammettere, in effetti, che sono proprio le stesse élites dirigenti – e nel quadro degli stessi rapporti di forza, nazionali e internazionali –, che si rivelano sempre abbastanza potenti, da un lato, per spezzare la resistenza delle classi popolari e imporre loro, una a una, tutte le costrizioni dell’economia di mercato (flessibilità, disoccupazione di massa, delocalizzazioni, mobilità geografica e professionale generalizzata, smantellamento progressivo di tutti i sistemi di protezione sociale, etc.), e che, dall’altro lato, tuttavia non lo sarebbero mai abbastanza per potersi opporre efficacemente a ogni nuova rivendicazione “societaria” avanzata dai liberali culturali di sinistra (rivendicazione che questi ultimi, peraltro, non mancano mai di presentare come l’antitesi assoluta a questo mondo patriarcale, razzista, omofobo e strutturalmente rivolto verso il passato […]). In altri termini, come se il continuo movimento di estensione dei «diritti dell’uomo» (come ormai si iscrive, giorno dopo giorno, nel marmo liberale del diritto «comunitario») non potesse trovare le sue sole reali condizioni di esistenza che nel simultaneo assoggettamento di tutte le classi popolari europee.

Certo, ognuno è libero di sottoscrivere tali favole (che sono, è vero, perfettamente adatte alla visione schizofrenica del mondo che la situazione socialmente – e psicologicamente – contraddittoria delle nuove classi medie urbane necessariamente genera). Mi sembra però molto piú semplice concluderne che il modo liberale di emancipazione degli individui (quello che si connette alle sole esigenze astratte dell’uguaglianza formale) lascia, per definizione, sempre intatte le fondamenta stesse del dominio capitalistico. E cosí ammettere, una buona volta per tutte, che il liberalismo economico […] e il liberalismo culturale […] – sotto la loro apparente opposizione, instancabilmente messa in scena dalla propaganda mediatica – non rappresentano altro che le due facce complementari di un solo e uno stesso movimento storico (quello che corrisponde, insomma, a quell’essere scisso che è il Giano liberale). È tale, in ultima istanza, la ragione filosofica principale per cui questi due versanti del liberalismo sono, quasi sempre, condannati a svilupparsi allo stesso passo (come la storia europea degli ultimi trent’anni non ha cessato di confermare[2])[3].



[1] [Quello che viene comunemente denominato «liberismo» in italiano, e liberisme anche in francese, n.d.r.]

[2] In questo senso, e per riprendere i termini della saggezza popolare, si potrebbe dire che un liberale coerente è colui che ha «il cuore a sinistra e il portafogli a destra». Tipo umano che non sembra prossimo a scomparire [nota dell’autore, n.d.r.].

[3] J.-Cl. Michéa, Les mystères de la gauche, Paris, Flammarion, 20142, Scolio O, pp. 116-120 [corsivi dell’autore; trad. it. di M. Monforte].

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