È il capitalismo attuale, con l’ideologia liberale che lo permea, nell’azione a esso funzionale dell’Unione (anti-)europea, che ha espropriato il calcio della sua essenza ludica e popolare, strumentalizzando la passione per il gioco mentre lo riduce a spettacolo fittizio.
(Riporto in proposito un passo di Jean-Claude Michéa, Les Mystéres de la gauche, Paris, Flammarion, n. [R], pp. 129-130, trad. mia). È il decreto il 15 dicembre 1995 emanato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (detto «Decreto Bosman», dal nome di un giocatore del Football Club di Liegi) che ha permesso al capitalismo moderno di far man bassa sul mondo del calcio professionistico e di portarne a compimento la corruzione dell’essenza ludica e popolare. Fino a fare della «gloriosa incertezza dello sport» un motto ormai privo di senso per la maggior parte dei clubs (che ormai sono l’immensa maggioranza), i quali non hanno piú i mezzi finanziari per giocare nella corte dei ricchi (che siano miliardari del petrolio o esponenti della mafia russa [o, si può aggiungere a quanto scrive Michéa, potentanti arabi o “investitori” cinesi, nota mia]). Quindi, non è senza interesse notare che tutti coloro che al quel tempo si erano mobilitati, sotto l’icona del portiere Joseph-Antoine Bell, del Camerun, per sostenere con entusiasmo questa decisione disastrosa (il «Decreto Bosman» dichiarava illegale il divieto posto dall’Uefa ai clubsprofessionstici europei, allo scopo di garantire unminimo di equità sportiva, di acquisire piú di tre “campioni” stranieri), avevano in genere teso a farlo in nome dell’«antirazzismo», della «lotta contro tutte le discriminazioni» e del diritto dei lavoratori a una «mobilità integrale» […]. Dunque, si ha proprio qui un esempio particolarmente “puro” di questo movimento, ormai classico, che, prima o poi, conduce le anime belle del liberalismo culturale [per lo piú, si può aggiungere a quanto scrive Michéa, almeno in Italia, fieri combattenti che l’ammantano, e lo credono, di “vera sinistra”, nota mia] a dover apparire come gli utili idioti del liberalismo economico.
Commento. Comprendo gli appassionati di calcio (pur non avendo questa “freccia nel mio arco”), specie i tifosi per una specifica squadra, e molto piú i sostenitori della squadra di calcio della città in cui, o nel cui territorio interurbano, vivono: è un residuo, benché sempre piú ridotto a immaginario, dell’attaccamento al territorio, all’ambiente, alla socialità del loco/situazioni/condizioni di esistenza (en passant: è «ambiente» il primario significato diéthos in ellenico, da cui è conseguito il significato di carattere, comportamento, usi e costumi). Quindi si tratta di un residuo di ricerca/volontà di identità, intrecciato al connesso gusto-tensione per la vittoria, simbolica, assumendo il rischio ludico della sconfitta: è, appunto, la «gloriosa incertezza dello sport». Ebbene, penso proprio che perciò dovrebbero rendersi conto in quale condizione di “pupazzi” esultanti e/o contriti il liberalismo=capitalismo & Ue li ha ridotti e confinati, comprendendo anche i motivi profondi (non detti, ma estremamente “interessati”) per cui i media danno grande spazio e costante rimbombo agli “eventi calcistici”. E, magari, smettere di vociare per/o contro l’imprenditore della “squadra del cuore”, perché ha immesso fondi malamente o pochi, e/o non ha comprato abbastanza “campioni altri”, o di altre località italiche o dell’estero, o non abbastanza “bravi”, etc.: cosí si situano nella sottomissione ai dettami del (devastante, anche dello sport) capitale. Ma c’è di piú: dovrebbero cessare di tifare e appoggiare squadre ormai solo di sport fittizio e solo forme di investimento di capitale, che non hanno che poco o nulla a che fare con le pulsioni di fondo del gioco del calcio (mentre è proprio questa riduzione-strumentalizzazione che apre lo spazio alle azioni fanatico-teppististiche di delinquenti e para-delinquenti che si atteggiano a “tifosi ultras”, e, conseguentemente a ciò che sono, sono influenzati e spesso reclutati da gruppetti neo-fascisti e/o ne fanno parte). E sostenere qualcosa di “altro”, che spinga al ritorno a dimensione e senso originari del gioco. È impossibile? Lo è davvero? Ma qualcuno ci ha mai provato, e, prima ancora, pensato?
Anche per quanto (mis-)fatto sullo sport del calcio(oltre che per tutto il molto, tanto, troppo, resto),ritengo che in primo luogo l’Unione anti-europea vada distrutta.
MM
Sarà possibile che si identifichi unicamente la passione per il calcio (e per la propria squadra) solo ed esclusivamente appaiandola alle manifestazioni esasperate e al fenomeno “ultras”, all’immenso profitto che ne scaturisce, all’accaparramento del fenomeno da parte della “teologia” liberalista?
Mi pare riduttivo: queste cose le so e non me le scordo. Le rarissime volte che mi capita di andare allo stadio mi fa molto piacere perché posso godere dello spettacolo “a tutto campo”, invece che inquadrato in uno schermo “pezzetto per pezzetto”; per contro, mi sento un pesce fuor d’acqua. Ma ho notato che questa sensazione è assai piú diffusa di quanto si immagini, benché ciò non serva a riportare il fenomeno alle sue origini: non va, infatti, dimenticato, che nasce tra, e per, le classi operaie e popolari, avversato e disprezzato dalle élites di potere. Finché, appunto, non decidono di piegarlo ai propri interessi, creandoci sopra profitto, e il tutto non venga esasperato, poi, dal liberalismo dispiegato e dalla «globalizzazione». Cosí, di passaggio, mi posso riferire al primo scudetto vinto dalla «Fiorentina» (1955-56), con alcuni (pochissimi, ovviamente) dei protagonisti ancora in vita, che testimoniano la vita calcistica dell’epoca: «dopo l’allenamento si diceva “Te icché tu fai stasera? E te?”, e si finiva sempre a cena insieme, con le famiglie. Oppure l’allenatore, Fulvio Bernardini, che per noi l’era come un babbo, che diceva “ragazzi, andiamo si va a far due passi in centro”. E prima delle ultime partite, s’aveva 18 punti di vantaggio, nello spogliatoio si giocava a briscola e scopone».
Riprendo qui da un’interessante passo di una recensione al libro di Michéa, tradotto e pubblicato quest’anno, Il goal più bello è stato un passaggio: in Il mio amico Eric, il celebre film di Ken Loach, a Eric Bishop, il working class hero dell’opera, che gli chiede quale fosse il goal più bello della sua carriera, Éric Cantona risponde: «il mio goal più bello? È stato un passaggio!». La battuta geniale di Cantona figura non a caso come titolo di questo libro di Jean-Claude Michéa, che raccoglie tre suoi scritti sul gioco del calcio. Il libro, infatti, non è altro che un omaggio che il filosofo francese ha voluto rivolgere al calcio comepassing game, come gioco d’attacco che, dalla fine del XIX secolo, caratterizza l’essenza stessa di questo sport operaio e popolare. Michéa si sofferma su molteplici aspetti culturali, economici e sociali del calcio moderno. Tratta della storica avversione e, all’opposto, della recente ammirazione degli intellettuali per questo sport, mostra quale fonte di profitti straordinari esso sia diventato. Non nega nemmeno che l’industria del calcio contemporaneo funzioni essenzialmente come un «oppio del popolo», e che una gradinata o una curva di ultras dia sicuramente un’immagine molto deprimente del potere dell’alienazione. Tuttavia, per lui, il calcio moderno costituisce anche e ancora, secondo la celebre espressione di Antonio Gramsci, un «regno della lealtà umana esercitata all’aria aperta», un regno che continua a suscitare entusiasmo tra le classi popolari.
Ho letto il testo di Stefano Parigi e mi permetto, in estrema, forse eccessiva sintesi queste considerazioni :
1) E’ cosa diversa giocare da veder giocare..Ho giocato in campi regolamentari da quando avevo 11 anni a quando ne ho avuti 53, mi sono molto divertito, ma a veder giocare mi annoio mortalmente e pochissime volte, in anni lontani, sono stato allo stadio od ho guardato la televisione, etc.
2) Il calcio, come ogni sport, come spettacolo è uno strumento di consenso, di truffa (le scommesse!), o pretesto per i violenti. Non a caso il regime fascista si impegnò particolarmente in questo campo, come hanno dimostrato le vittorie ai campionati mondiali del 1934 e del 1938.
3) Il concetto di popolo è ambiguo, per me il termine classi popolari è un ossimoro.
4) Cittadine e cittadini debbono poter praticare lo sport come attività ricreativa e salutare, e questo è una finalità del potere antagonista alla borghesia. Con la vittoria ci aspetta la liberazione, grazie alla robotica non usata per il profitto privato, dal il tempo dedicato al lavoro. Su questo aspetto, in questa sede, non posso aggiungere altro.
Fraterni Salut