Estratto da Maximilian Forte, «Zero Anthropology» (segnalato da Bagnai su «Goofynomics»): l’antropologo italo-canadese analizza la scomparsa della sinistra in atto (testo integrale: http://vocidallestero.it/2016/10/01/immigrazione-e-capitale/).
L’immigrazione è uno dei temi piú dibattuti nello scontro politico in Europa e Nord America, considerata centrale per la Brexit del Regno Unito e l’ascesa dell’«America First» di Trump negli Usa. No alle tattiche di distrazione: 1) essere contro l’immigrazione non rende una persona razzista, esserlo significa vedere l’umanità gerarchizzata su differenze biologiche, mentre preferire “i propri simili” può essere la base di un etnocentrismo, non necessariamente di razzismo; 2) la xenofobia non implica né razzismo né etnocentrismo, può essere repulsione per chi è “straniero” o “diverso”. Invece, si può essere razzista ma a favore dell’immigrazione, se consentita della propria razza (cosí l’Australia fino alla II guerra mondiale). Altre forme di razzismo pro immigrazione: schiavitú, lavoro forzato, fino al “facciamo venire i messicani bravi come giardinieri”. Sondaggi negli Usa: “opposizione all’immigrazione non per al razzismo, ma per paura che gli immigrati meno qualificati non possano mantenersi senza i programmi assistenziali” (buoni pasto, crediti d’imposta …).
Nella politica economica dell’immigrazione in Europa e Nord America, nella relazione immigrazione-capitale, si scoprono due assenze. Prima: coloro che, a sinistra, erano critici dell’immigrazione di massa, specie illegale, ora non si pronunciano, o hanno cambiato opinione. Seconda: non collegano immigrazione e capitale, evitando di fornire basi per la critica all’immigrazione. La spiegazione: paura di essere stigmatizzati come razzisti o xenofobi.
Harvey [celebre antropologo inglese], in Diciassette contraddizioni, nota che, per molti marxisti, la contraddizione tra capitale e lavoro è quella principale del capitalismo, ma non pensa che questa contraddizione possa spiegare da sé tutte le crisi del capitale. Fissato il ruolo del lavoro nello sviluppo storico del capitalismo (il lavoro rimane centrale), Harvey personifica il capitale: «il capitale si sforza di produrre un paesaggio geografico favorevole alla sua riproduzione e successiva evoluzione» sono i capitalisti a farlo, non il capitale in quanto tale. Andrebbe aggiunto che rimaneggiare un paesaggio geografico implica considerare come gli esseri umani si inseriscono in questo paesaggio, e che spostare lavoratori per il mondo significa rimaneggiare la geografia. Stabilita la centralità della contraddizione capitale-lavoro, Harvey aggiunge il terzo elemento: «un’economia basata sulla spoliazione è il nocciolo di quello che davvero è il capitalismo».
L’utilità dell’immigrazione nel capitalismo sta nell’usarla per rompere il potere del lavoro. I lavoratori possono avere un monopolio virtuale sul lavoro, specie se è specializzato e il numero dei lavoratori ridotto. Il flusso di migranti può spezzare questo monopolio, creando competizione tra i lavoratori. Sull’agenda del capitale non c’è l’abolizione delle specializzazioni, ma di quelle monopolizzabili. Se l’aumento dell’accesso all’educazione aumenta i lavoratori specializzati, un altro metodo è importare studenti stranieri a seguire un corso di studi, e poi trattenerli. È un punto cruciale del programma di Hillary Clinton, ma non se parla, per il «politicamente corretto». Hillary garantirebbe il visto (green card) ai laureati e dottorati in discipline scientifiche presso istituzioni accreditate, e visti start-up ai migliori imprenditori stranieri per costruire negli Stati Uniti imprese nei settori tecnologici piú competitivi, e creare posti di lavoro per i lavoratori americani, con copertura finanziaria da parte di investitori americani. Per gli studenti americani, gravati di debiti per i loro diplomi, sarà difficile spuntarla quando dovranno competere con gli immigrati per un numero finito di posti di lavoro, o quando i loro stipendi diminuiranno. La Clinton propone di rendere piú efficiente la competizione già esistente dei “colletti bianchi” stranieri.
I capitalisti attuano un vasto «esercito industriale di riserva»: 1) tramite la disoccupazione causata dalla tecnologia (automazione), 2) l’accesso a nuove fonti (come delocalizzare in Cina), 3) espandere l’offerta di lavoro interna importando lavoratori (immigrazione).
La delocalizzazione fa sovvenzionare il capitale ai lavoratori: il «libero mercato» contemporaneo vieta qualsiasi sussidio governativo ai lavoratori, mentre possono essere iper-sfruttati per salari bassi che riflettono il basso prezzo dei loro prodotti connesso alla competizione sul mercato globale. La “rilocalizzazione”, per cui sono i lavoratori esteri che migrano per trovare i lavori, è l’immigrazione, che è usata per deprimere i salari dei lavoratori nella nazione che li riceve ma gli “esperti” affermano che l’immigrazione non ha impatti negativi sui lavoratori. Il capitalismo vuole i salari piú bassi possibili, il che significa meno acquisti, riduce il mercato e il profitto. Come sostenere la domanda? a) Aumentare gli stipendi? No! b) Aumentare il credito? Si fa. c) Aumentare la massa dei lavoratori? Si fa: meno da spendere singolarmente ma, con piú lavoratori, piú persone che spendono (pur poco), quindi l’immigrazione sostiene la domanda senza aumentare i salari.
Le élites politiche ed economiche proclamano che assistiamo al “suicidio della democrazia”. Gli elettori, invece, realizzano che possono esprimere un voto su globalizzazione, libero mercato e neoliberismo, come nella Brexit e con il movimento di Trump negli Usa. Nella Brexit c’è stato un disdegno della democrazia liberale da parte di chi ha votato Remain, esortando il Parlamento a ignorare il referendum, sino a chiederne un secondo. Ma il fatto che i pro Remain fossero motivati dalle quantità di lavoro a basso prezzo non è passato inosservato.
Un sistema oligarchico in crisi cerca rimedi: resa la maggioranza dei lavoratori superflui, vanno resi superflui anche come elettori. Negli Usa si prova sollievo quando i Democratici dichiarano il declino dei loro sostenitori tra i lavoratori bianchi, e la crescita dei voti dagli ispanici, grazie all’immigrazione, sia legale che illegale, che le loro politiche hanno aiutato a promuovere. L’immigrazione serve a far sopravvivere un regime in una nazione divisa sul piano etnico. Un partecipante (di destra) a un dibattito radiofonico, ironizzando sul «politicamente corretto» di dire gli immigrati illegali «lavoratori senza permesso», li ha detti «democratici senza documenti».
Abbattere i confini allunga la vita di regimi impopolari. Le élites dominanti capiscono che (a) i lavoratori a disposizione sono votanti a disposizione e (b) possono importare una nuovi votanti, riconoscenti per l’appoggio, finché regge il discorso pro-immigrazione. Mentre gli oligarchi ci chiedono di salvarli, molti sono affascinati dalla politica dell’identità e del moralismo, seducente e sfruttatrice. Alcuni, nell’illusione dell’eterna lotta al “fascismo”; altri, lasciano che reazioni emotive li guidino verso obiettivi che nemmeno intuiscono.
In Italia, dove il fascismo fu inventato, il fascismo prese piede senza alti livelli di immigrazione, ma con produzione di emigranti. Il “fascismo reale” includeva un piano di colonizzazione per impiegare a casa una popolazione in crescita. Nulla di ciò fa parte nell’agenda di Trump.
Mentre l’immigrazione può far sopravvivere un regime dentro i confini, può essere fattore destabilizzante se causata da cambi di regime all’estero. L’immigrazione ha portato alla vittoria della Brexit: «la società britannica è stata trasformata da un’ondata migratoria senza precedenti nella storia»; dall’avvento di Tony Blair al governo «sono arrivati in Gran Bretagna circa due volte gli immigrati dei cinquant’anni precedenti». Perciò la vittoria della Brexit pare anche una vittoria delle classi lavoratrici. In Europa, le conseguenze del forte afflusso di migranti non hanno portato stabilità alla classe politica dominante. Si vedono i governi europei, che hanno sostenuto (o ancora sostengono) le campagne Usa per il cambio di regime in Iraq, Afghanistan, Libia e Siria, a fronteggiare il conseguente flusso di migranti. Indebolite, o rese inesistenti, le strutture statali di Afghanistan, Iraq e Libia, e compromessa la Siria, la violenza in queste nazioni ha generato un forte afflusso di rifugiati. Per un po’ si è scaricato il barile a paesi poco in grado di ospitarli, la Giordania e la Turchia, o perfino la Grecia, già fragile. La stessa Siria ha ospitato centinaia di migliaia di iracheni, dopo l’invasione Usa. Una volta che una porzione di migranti ha iniziato a spostarsi dentro l’Unione Europea, le élites al governo hanno trasferito i costi sulle classi piú povere, sovraccaricando uno «Stato sociale» già immiserito dall’austerità, ed esigendo atteggiamenti benevolenti. Le proteste di questi strati sociali sono bollate come «razziste» e «xenofobe», specialmente dai (cosiddetti) “progressisti”. Ma il punto è che l’Occidente non avrebbe dovuto creare quelle masse di rifugiati, come ha fatto con invasioni, occupazioni e bombardamenti.
La sinistra ha abbandonato ogni tentativo di prospettiva critica sull’immigrazione. Vediamo:
1) [negli Usa] Naomi Klein e Bernie Sanders, e, in generale, politici e attivisti di sinistra, o si sono chiusi nel silenzio, o hanno cambiato posizione;
2) accademici marxisti, come David Harvey, non traggono le conclusioni dai loro stessi lavori;
3) esponenti della sinistra si oppongono alle rimostranze delle classi lavoratrici, quando è imposta un’ulteriore austerità perché sanità, istruzione, servizi sociali, devono occuparsi dei migranti;
4) le élites politiche cercano un appoggio da sinistra, e sostengono [negli Usa] l’immigrazione da Messico e Centramerica.
Dati la stretta relazione tra immigrazione e capitalismo, e il collasso dell’ordine liberale, la sinistra si condanna all’estinzione. Il “non voto per un razzista o un bigotto” va tradotto in “sto salvando l’oligarchia”. In Occidente siamo a una svolta storica: un futuro con assenza della sinistra, o diventata un residuo, che riappare in apparizioni superficiali, o frasi fatte. E la distinzione destra-sinistra (che evapora da entrambi i lati) perde ancor piú senso, quando la destra si appropria di tematiche che per la sinistra erano cruciali. La cosa piú importante è mettere le politiche migratorie al centro del dibattito, e dovrebbe esserci una vasta consultazione pubblica. Zittire le persone con facili e ipocrite accuse di “razzismo” non è un sostituto della democrazia. Si deve sapere come l’immigrazione colpisce salari, prezzi, opportunità di lavoro, servizi sociali, organizzazioni sindacali, e il tema è legato alla politica economica, commerciale, e dello «Stato sociale». Al momento, negli Usa, per troppe persone “di sinistra” si dovrebbe rispondere piú agli stranieri che ai cittadini americani, sulla politica migratoria. È un approccio dannoso e irrazionale. E troppo spesso le decisioni sull’immigrazione sono prese a porte chiuse da comitati legati ad interessi privati, con programmi per l’immigrazione contorti e loschi, deviando il dibattito al punto che le posizioni politiche sono cosí polarizzate da non ammettere obiezioni. Infine, in politica estera Usa, serve un’inversione di rotta della promozione all’estero degli Stati Uniti come faro, modello, punto piú alto di sviluppo e ricchezza umane, il che li rende la destinazione ovvia per tanti che compiono scelte senza farsi domande e sapere a che vanno incontro.
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