Lunedí il “nuovo” governo ha ottenuto la fiducia al Senato. Non è andata benissimo, però, solo 169 voti contro i 173 con cui è stato varato il governo Letta: vale a dire che ha ottenuto i soli voti di Pd, Nuovo centro destra, Scelta civica e casiniani altri gruppuscoli, come G.a.l., Grande Sud e quant’altro che, nelle ottimistiche ipotesi della vigilia sarebbero stati della partita, si sono invece defilati in corner.
Ieri alla Camera è andata meglio. Nonostante molti mal di pancia, il Pd ha votato la fiducia: perché Renzi è l’ultima chance! Per il bene del Pd e del paese che per il Pd coincidono. E questo è anche il “ragionamento” di tanti piddini, che, interpellati sulle conseguenze del trionfo di Renzi alle «primarie» che l’hanno portato alla segreteria del partito e, successivamente, ne hanno comportato la rivendicazione di «sindaco d’Italia», sostengono serafici di aver dato quel voto «a prescindere» di quali sarebbero potute essere le conseguenze: non c’erano alternative – affermano – era una scelta obbligata, l’ultima spiaggia.
Ora Renzi sostiene – responsabilmente (?!), è stato fatto notare – che, qualora il suo compito dovesse fallire, la responsabilità sarebbe tutta sua e soltanto sua: nessuno dei suoi collaboratori ne sarà corresponsabile. Peccato che, in tale sciagurata ma per nulla remota stravagante eventualità, insieme a Renzi potrebbe andare a fondo anche il paese; diversamente potremmo stare tranquilli e magari dedicarci a qualche voodoo propiziatorio. A questo proposito va dato atto a Stefano Fassina («Fassina chi?», aveva detto in un pubblico confronto Renzi, con la sua abituale arroganza) di aver rilevato – nel suo intervento alla Camera – che in tal caso la responsabilità coinvolgerebbe tutto il partito che gli ha votato la fiducia. Il che però, quasi per un’eterogenesi dei fini, si è trasformato in un ulteriore incentivo a sostenere Renzi in quella che sempre piú si configura come una mission impossible. Perché? In primo luogo per la configurazione abborracciata e raccogliticcia del suo governo, cui fa da contraltare la totale mancanza di uno straccio di programma che possa ambire a essere definito tale, sostituito invece da luoghi comuni, auspici e desideri, secondo gli schemi piú triti dello spot pubblicitario.
La scuola – primo oggetto di attenzione nel suo discorso al Senato – piú che di bonifiche e di opere di restauro, di costruzione di nuove aule, di qualificazione dei programmi, nonché del corpo docente e non docente, cui riconoscere un compenso adeguato alla delicatezza della funzione svolta tematiche cui si è fatto cenno di passata, quasi incidentalmente per dovere rituale di citazione , nell’ottica renziana, necessiterebbe piuttosto di una nuova visione , di un nuovo punto di vista da cui essere guardata: «immagina! Puoi!». E, d’altra parte, non potrebbe essere che cosí: con una tale congerie di disarmonie poco recondite di bellezze troppo diverse (parafrasare l’incipit di una nota romanza diventa quasi inevitabile dato lo stile tra l’ispirato e l’immaginifico di questo mezzo-profeta e mezzo-ciarlatano), meglio dunque glissare sui contenuti e lasciarsi aperte tutte le possibilità di mediazione, alias di pateracchi.
Basta scorrere la lista dei ministri. Non è necessario eccellere in acribia per rilevare – oltre alle scarse garanzie di affidabilità per deficit di competenza ed esperienza anche nell’ottica della politica intesa nel senso piú tradizionalmente allineato allo status quo – alcuni aspetti non secondari che, senza peccare di allarmismo, possono essere definiti inquietanti. Vediamoli.
Il ministero dello Sviluppo economico – quello che per “lorsignori”, Europa compresa, pare essere uno dei piú importanti – è affidato a Federica Guidi, già a capo dei giovani di Confindustria. Figlia d’arte – il padre Guidalberto l’ha resa partecipe delle sue svariate entrature confindustriali e politiche è vicepresidente dell’azienda di famiglia, la «Ducati energia». Benché dimessasi da tale carica, come ella stessa ama sottolineare, riuscirebbe difficile anche al piú sprovveduto convincersi di una sua completa presa di distanza dagli interessi di famiglia, quando fossero in ballo scelte dirimenti in campo economico. Perché Renzi l’avrà scelta? Dato il compito impegnativo come la guida di un ministero che ha dato parecchio filo da torcere a personaggi ben piú esperti e/o temprati, e dato che, oltre tutto, non ha neppure esperienza ministeriale. Chi voleva rassicurare? Se consideriamo che la delega per le telecomunicazioni sarà assegnata a questo ministero, e che a Berlusconi interessano – oltre che la legge elettorale –, e molto, le proprie aziende, un barlume di motivazione lo si intravede. Risulta inoltre che la neoministra faccia parte della «Commissione Trilaterale», come informa «Il Fatto Quotidiano» (C. Tecce, 25.02.2014) che intervista Carlo Secchi, presidente del gruppo italiano della Commissione stessa.
Ex rettore della Bocconi [manco a dirlo!] e consigliere d’amministrazione di sei società quotate in borsa ([tra cui] Italcementi, Mediaset, Pirelli, capo di Mediolanum) [Secchi] non rivendica meriti: Noi cerchiamo di mettere insieme i migliori [sic!]e capita che i migliori siano chiamati a guidare anche l’Italia.
Il Club in questione, che inizialmente vedeva partecipi Stati Uniti, Europa e Giappone – da cui il nome: «Trilaterale» – si è recentemente allargato a Cina e India.
Gruppo di studio e di lobby, intuizione americana di David Rockefeller e di Henry Kissinger, brame di tecnocrazia e di finanza globale […,] non manca mai all’appuntamento con l’esecutivo italiano.
Continua Secchi:
noi cerchiamo di agevolare il dialogo tra l’economia e la politica per far coincidere l’interesse fra istituzioni e denaro. E finalmente […] è pronto un documento che dobbiamo approvare proprio in aprile. Ci abbiamo lavorato quasi due anni, l’aveva ispirato Monti. […] La nostra visione per un sistema che rispetta il rigore finanziario, il libero mercato, ma non resta immobile, che riduce le tasse, rivede il fisco e aiuta i cittadini. Anche Letta e Guidi hanno partecipato a questo progetto. […] Sono convinto che vedremo ancora governi di larghe intese, seppur politici, che vanno oltre i numeri di maggioranza che esprimono gli elettori.
Interpellato sul conflitto di interessi precisa:
mica possiamo mandare al governo i monaci che hanno fatto voto di povertà.
Richiesto infine sul ruolo esercitato dalla «Trilaterale» risponde:
Non determiniamo gli eventi , ma li possiamo condizionare.
Chiarissimo. E con ciò l’Europa è rassicurata. Riuscirà il nostro eroe a strappare lo sforamento del patto di bilancio? Risponde Secchi:
Per ottenere una risposta affermativa l’Italia deve sistemare i conti e preparare un piano di tagli, altrimenti è pura demagogia. L’Europa non potrebbe mai accettare.
E qui si sfarina il libro dei sogni di Renzi che, non ha caso, si è ben guardato da specificare dove avrebbe attinto i fondi per attuare i progetti – fantasmagorici e inconsistenti – evocati in attesa di ottenere l’investitura dal parlamento.
Veniamo alla scuola dove, in nome dell’innovazione, viene nominata neo-ministra la montiana Stefania Giannini, la quale – come informa «il manifesto» (A. Sciotto, 25.02.2014) – ha recentemente promesso di portare i licei a 4 anni. Costei si propone, inoltre, di abolire gli scatti di anzianità per i docenti (il cui stipendio è bloccato dal 2006), mentre l’orario di servizio salirebbe a 24 ore a parità di salario; pare inoltre che il fondo d’Istituto verrebbe tagliato. Inoltre la Giannini vorrebbe istituire un fondo nazionale per le borse di studio, erogate come «prestito d’onore», a imitazione degli Usa, dove milioni di studenti sono oberati da un debito molto pesante per poter accedere agli studi. Per quanto riguarda i costi per la manutenzione ordinaria (inadeguata, pare, per il 39% degli edifici), la messa in sicurezza di oltre 24.000 scuole costruite su aree a elevato rischio sismico e 6.500 edifici in zone a rischio idrogeologico (dati Ance-Cresme), Renzi non ha né ipotizzato la quantità di fondi presumibilmente necessari, né accennato alla fonte di un loro possibile reperimento.
Ambiente. Il ministro Gianluca Galletti – grande estimatore della «famiglia tradizionale», tanto da auspicare, per quanto riguarda l’accesso ai servizi, un correttivo a favore delle coppie sposate – è, of course, uomo di fede centrista in quota Casini. Il suo profilo curriculare evidenzia una presenza di lungo corso nel campo delle multiutility, vale a dire le società per azioni che gestiscono – come da slogan della francese Suez – «l’essenziale per la vita»: dunque acqua, rifiuti, energia e servizi pubblici locali.
A Bologna, nel 2011, Il Nostro si pronunciò contro il referendum sull’acqua pubblica vinto dal «sí» con oltre 27 milioni di voti in nome del mantenimento del principio del profitto per le società per azioni.
Sulle tariffe dell’acqua [ e sui i profitti per i gestori –] il ministro ha idee chiarissime : C’è la questione degli interessi finanziari […] e sotto questo profilo non cambia nulla.
E richiede piú mercato nonostante il voto referendario, perché
se l’acqua la gestisce il pubblico siamo in un regime di monopolio [… mentre] nella concorrenza il prezzo è piú basso, la qualità migliore.
Anche sul nucleare il ministro ha le idee chiare: nel 2010 lo difendeva a spada tratta spiegando che
quando ci sarà un piano sul territorio che dimostrerà che ci sono siti piú sicuri […] di altri […] se uno di questi siti fosse in Emilia Romagna, io assumo la mia responsabilità, non avrei timore a metterlo in Emilia Romagna.
Fu stoppato da Fukushima (A. Palladino, «il manifesto», 25.02.2014). I dossier che troverà sul tavolo di ministro incrociano la sua attività politica e professionale: Caltagirone per l’emergenza rifiuti o, per quanto riguarda le bonifiche, la società del ministero dell’ambiente Sogesid, settore in cui detta società ha un ruolo strategico.
Altro snodo di interessi molteplici (e confliggenti) è il ministro del lavoro (S. Cannavò, S. Feltri, «Il Fatto Quotidiano», 25.02.2014), Giuliano Poletti:
Presidente dell’alleanza delle cooperative (coop rosse piú coop bianche) e storico presidente della Lega coop nazionale, è il terminale di un intreccio imprenditoriale e politico che, a voler essere rigorosi sui potenziali conflitti di interesse, praticamente gli impedirebbe di toccare qualunque dossier. Perché la rete delle coop arriva dovunque: per esempio, c’è l’Obiettivo Lavoro, un’agenzia di servizi per il lavoro creata nel 1997 dalle larghe intese tra Coop e Compagnia delle opere (Comunione e Liberazione). Ma le compagnie di cui è stato per anni il piú alto rappresentante con la Compagnia delle opere si dividono anche gli appalti per l’Expo 2015 a Milano, e alcuni dei grandi colossi cooperativi delle costruzioni sono attivi in progetti ad alta sensibilità politica, come la Cmc di Ravenna che si occupa del tunnel Tav Torino-Lione. Per passare dal macro al micro, tre grandi coop di consumo (Liguria, la piemontese Nova coop e la Coop Adriatica) sono socie di Eataly distribuzione , una delle parti del gruppo alimentare di Oscar Farinetti, imprenditore molto vicino a Matteo Renzi. E con Eataly le coop collaborano in tante librerie, tra letteratura e gastronomia.
Ma queste sono minuzie a fronte di altri intrecci: tutte le grandi coop hanno scommesso sulla finanza, alcune su Monte dei Paschi (con risultati disastrosi), altre su Unipol, il gruppo bolognese guidato da Carlo Cimbri, che ora si è fuso con la Fonsai post-Ligresti, creando il colosso del settore.
La vigilanza sulle coop non è piú del ministero del Lavoro, è passata allo Sviluppo, ma ci sono materiali che saranno di diretta competenza di Poletti. Come le regole sui contenziosi di lavoro.
L’articolo prosegue elencando, a mo’ di esempio, alcune ingiustizie perpetrate a danno di lavoratori licenziati e reintegrati, su istanza del tribunale, ma in sedi assai distanti quando non “dimenticati” se avevano dato vita a contestazioni.
Last but not least, come non menzionare in questa carrellata non esaustiva il ministro della Difesa, l’onorevole Pinotti? All’indomani della presentazione a Napolitano della lista dei ministri, «il manifesto» (N. Rangeri, Le malintese, 22.02.2014) ricordava come la nostra eroina fosse passata dalle marce no global di Porto Alegre a quelle ai Fori imperiali, dove sfilano i militari, dei cui vertici riscuote la simpatia, ivi compresi – pare – i vertici della Nato. Trasmigrata dal pacifismo all’interventismo, le sue evoluzioni e piroette l’avrebbero portata a interessarsi a Finmeccanica e soprattutto agli F 35, di cui sarebbe una strenua sostenitrice. Maturato il suo abbandono della (cosiddetta) ex sinistra Ds, si orienta decisamente a favore della squadra di Renzi, cui aderisce con salda convinzione.
Molti – la maggior parte, secondo alcuni – dei ministri dell’attuale governo facevano parte anche di quello precedente, motivo per cui una domanda legittimamente si impone: qual è la differenza col governo Letta?
La risposta – ovvia fino alla banalità – starebbe tutta nella sola persona del presidente Renzi. Risposta inesatta, però, perché la collocazione dei vari ministri degli attuali ministeri è diversa, e sicuramente meno consona e appropriata, come è stato sopra illustrato. A meno che non si voglia maliziosamente insinuare che tutto è stato fatto ad hoc ma forse sarebbe eccedere nella malizia.
Sulla figura di Matteo Renzi si sprecano i commenti, le interpretazioni, le previsioni, gli encomi piú entusiastici e le critiche piú o meno pesanti e corrosive.
Interpellata dai giornalisti a ridosso del voto, una giovane esponente di Forza Italia dichiarò che Renzi aveva appena impartito l’estrema unzione a tutto il Senato: alludeva, con ogni evidenza, al modo estremamente ruvido e sbrigativo con cui Renzi ne aveva annunciata la liquidazione, affermando – con una buona dose di pressappochismo – che andava trasformato in una sorta di Bunderat tedesco, istituto del quale ha, con ogni probabilità, una conoscenza a dir poco vaga.
Tra gli estimatori – che Renzi vanta prevalentemente, sia pur con qualche sfumatura e distinguo, nell’area di centro, di centrodestra e di destra qualcuno lo ha paragonato a Gorbaciov, mentre Giuliano Ferrara gli ha addirittura intonato un peana, un autentico panegirico, quasi un’agiografia, intitolata Ecce homo, e si chiama Matteo1.
Purtroppo per gli autori sia il primo paragone, sia, e ancor piú, il secondo non sono per nulla beneauguranti: il primo fa pensare a un canto del cigno, che come è noto viene intonato in articulo mortis; il secondo a un’epigrafe. Ancora un’eterogenesi dei fini? Forse. E per saperlo non dovremo aspettare a lungo.
CB
1 Ecce homo, e si chiama Matteo, Il Foglio, 22 febbraio 2014