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RENZI, PD & CO.: GLI “AMERIKANI”

Mentre Enrico Letta rassegnava le dimissioni da presidente del Consiglio, Peter Spiegel, capo della redazione del «Financial Times” di Bruxelles, si poneva la seguente domanda: «forse Renzi deve il suo nuovo lavoro a Draghi?» (S. Merlo, Renzi, La sponda americana, «Il Foglio», 20.02.2014). Spiegel non parla di macchinazioni, sostiene soltanto che, a suo avviso, le politiche monetarie messe in atto dal presidente della Bce avrebbero comportato la riduzione dello spread tra i titoli di Stato tedeschi e i nostri, e dunque «un senso di rilassatezza inoperosa nel governo Letta», la cui conseguenza sarebbe stata «la repentina scalata del sindaco di Firenze ai vertici del Pd e poi di Palazzo Chigi, garantendo che i mercati non sobbalzassero per il cambio in corsa». «Post hoc non è sempre propter hoc», ammette l’articolista, che però ritiene che « tra l’operato dell’uno e la rincorsa dell’altro « una correlazione ci sia. E – tutto sommato pare che anche Renzi sia di questo parere.

L’articolo ricorda a questo proposito come nello scorso gennaio Renzi incoraggiava Letta a «resistere in sella fino al 2018», dichiarando nel contempo che «il merito fondamentale» della situazione di bonaccia di cui godevano i bond italiani era del «condottiero Draghi» e dunque solo in tono minore del governo Letta. Quasi a dire che, con la Bce che ci spalleggiava, Letta era superfluo. Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, a lungo collaboratore di Draghi, e che Renzi non conosce di persona, gli ha recentemente «illustrato il punto di vista di Francoforte sulla situazione europea (e quindi italiana)». Una «fonte qualificata» e attendibile avrebbe rivelato al «Foglio» che »Renzi è un homo novus della politica italiana […]. Draghi lo osserva con curiosità […]. Ai suoi occhi è uno dei pochi che finora ha detto alcune cose e le ha fatte. L’attesa riforma della legge elettorale è stata incardinata in un mese, non è poca cosa».

Inoltre « continua l’articolo «il background “amerikano” [sic!]» potrà tornare utile in futuro. Certo continua l’articolo l’affiliazione di Draghi è principalmente con il mondo finanziario anglosassone e con i suoi referenti alla Casa Bianca: ancora di recente Larry Summers, ex segretario al Tesoro di Bill Clinton, incontrandolo ad Harvard ha usato parole d’encomio non comuni, dicendo che se a Francoforte fosse finito qualcun altro forse oggi non si parlerebbe piú di euro.

Sull’esperienza di Draghi in «Goldman Sachs» campano i complottisti del web, ma piú realisticamente George Soros vi legge la genesi del pragmatismo del banchiere, che sa come trattare con gli investitori internazionali. La rete internazionale di Renzi è per ora meno robusta, cosí come i suoi addentellati in Europa, ma c’è. Nel 2007 il viaggio di studio in America sponsorizzato dal Dipartimento di Stato (potrebbe tornarci da premier nella sua prima vista straniera); poi c’è il «Time», che già a inizio 2009 lo incoronava «Obama italiano»; c’è il conservatore Michael Ledeen che lo segue da tempo; c’è l’ex ambasciatore a Roma, David Thorne, che parlò di lui come di «un caso molto interessante» al momento dell’elezione a sindaco; c’è l’endorsement degli eredi dei Kennedy; ci sono i legami ricercati dallo stesso sindaco con i vertici di «Google», azienda simbolo di tutto quello che è 2.0 (da difendere da quei piddini che vorrebbero tartassarla di gabelle); c’è infine una spruzzata d’accademia: Francesco Giavazzi (già collega di Draghi al Tesoro negli anni novanta), Enrico Moretti (università di Berkeley, chiamato pure alla Casa Bianca), Filippo Taddei (della «John Hopkins», entrato nella segreteria del Pd).

In Italia il braccio destro di Renzi, Marco Carrai, è a suo agio quando si muove tra Stati Uniti e Israele; mentre Franco Bernabè, da subito nel “toto-ministri”, è inseritissimo nei circuiti transatlantici che contano. Soprattutto però, ci sono le aspettative degli ambienti finanziari anglosassoni, dimostrate dalle generose aperture di credito di quotidiani come il «Wall Street Journal» e il «Financial Times». Da una parte la promessa di voler intraprendere riforme strutturali in Italia (iniziando dal mercato del lavoro e del Welfare, come ha richiesto pure Draghi lo scorso maggio a Roma), dall’altra un approccio «non ideologico» sull’austerity fiscale [… sempre piú spalleggiato da Romano Prodi, ex presidente della Commissione …].

E questo conclude l’articolo potrà tornare utile ai vertici della Bce, se e quando «Berlino si mostrasse ancora una volta troppo spigolosa nel gestire la crisi dell’euro. E accadrà», conclude il giornalista, con una previsione che è a un tempo un auspicio: a vantaggio di chi? Lo sapremo fin troppo presto.

Sui legami con Israele dell’entourage di Renzi – conseguenti a quelli americani – si diffondeva alcune settimane fa «L’Espresso» e non mancava di farvi cenni anche il testo Matteo, il vincitore (di Ferrarese, Ognibene, Firenze, Giunti, 2013) uscito nel passato dicembre. E che fine farà la politica estera italiana nei confronti del Vicino oriente? Fin dai tempi della Prima Repubblica, l’Italia aveva intrattenuto un certa equidistanza nei confronti dei paesi che affacciano sul Mediterraneo.

Perfino Berlusconi piú che uno statista un “cavaliere rampante” – aveva coltivato, sia pur alla sua maniera abborracciata e ondivaga, motivo per cui non è stato immediatamente stoppato dall’establishment internazionale, un qualche rapporto con questi paesi: non lineare e, se vogliamo, talora contraddittorio, ma che comunque non si configurava come una dichiarata scelta di campo.

Che succederà ora? E come ci collocheremmo nei confronti degli Usa, paese verso il quale abbiamo già da tempo una marcata sudditanza da provincia periferica? Se queste sono le premesse, le prospettive non sembrano rosee: né c’è da aspettarsi un’efficace azione di contrasto da un Pd sfilacciato e in confusione, ma comunque e sempre piú dichiaratamente a filo-amerikano.

CB

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