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LE RIFORME DI RENZI & CO.

Il termine «riforma» ha assunto il significato di “modifica in senso positivo”. Rispetto alle riforme in cantiere – riforma elettorale, delle Province, del Senato – è cosí? Non appare l’intento di rendere l’attuale sistema piú adeguato alle esigenze del paese, allargare la democrazia, coinvolgere i cittadini, informarli e renderli consapevoli e responsabili delle scelte. No, appare il tentativo di adeguare ciascuna modifica a un disegno opposto. Sostiene G. Orsina su «La Stampa» (27.03.2014):

dal 1948, e piú ancora dai primi anni sessanta, fino al 1992, i partiti hanno rappresentato l’asse portante del nostro sistema politico, garantendo una certa capacità di governo e stabilità politica, pur nel mutare frequente dei gabinetti. […] Ma ora quella repubblica [dei partiti, come lui stesso la definisce, n.d.r.] non esiste piú. [… E, da quando ha cominciato a scricchiolare, cioè] dagli anni settanta […] la classe politica ha cominciato a ragionare – invano – di possibili riforme. Private del loro asse portante, le nostre istituzioni sono entrate in crisi.

Da qui, secondo Orsina, la necessità di un rafforzamento del potere esecutivo. E le riforme citate concorrono a tale scopo. Quello di Orsina non è solo “un” punto di vista. È ormai un luogo comune, martellato dai media: una giaculatoria che silenzia le rare voci dissenzienti, ignorate o tacciate di sabotaggio. E si diffonde nel paese – accanto a un atteggiamento disincantato e scettico – un clima di attesa acritica delle “iniziative salvifiche”, opera di un novello “pifferaio magico”.

Vediamo queste riforme. E chiediamoci, in una società complessa, dove è in atto uno sfarinamento che mette a rischio la tenuta del tessuto (detto) democratico finora presente, che cosa sia una risposta di questo tipo: di fronte un’implicita domanda politica – domanda di potere – che viene dalla parte piú avveduta della popolazione, si propone un rafforzamento (e che rafforzamento!) dell’esecutivo, all’insegna del decisionismo, messe al bando tediose e inutili discussioni.

La grande riforma istituzionale – che comprende la riforma del C.n.e.l. (su cui sarà il caso di tornare in altra occasione) – prevede che il governo sia dotato di due poteri importanti: 1) la revoca dei ministri da parte del presidente del Consiglio; 2) una corsia preferenziale per l’esame dei disegni di legge governativi, grazie anche all’introduzione della “ghigliottina”. E, con il nuovo Tit. V della Costituzione, verrà ridisegnato il raggio d’azione delle Regioni.

Dal 1948, quando è stata approvata la Costituzione vigente, il presidente del Consiglio è un primus inter pares: con la modifica, ruolo e poteri di Renzi (o poi chi per lui) saranno equiparati a quelli dei capi dell’esecutivo di altri paesi europei, come per es. Francia e Inghilterra. La “ghigliottina” consentirò al governo di far approvare una legge entro una data stabilita. Adesso il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri, che possono dimettersi o essere sfiduciati dal parlamento; in nessun altro modo ora vi possono essere costretti.

Accennando alla riforma elettorale, l’«Italicum», la legge approvata alla Camera ne peggiora (incredibile!) le formulazioni: un partito che raggiunga solo il 30% dei consensi e sia alleato con uno o due partiti minori, rimasti sotto la soglia del 4,5%, ha la maggioranza assoluta della Camera. In anni migliori, una proposta di legge che consentiva tale risultato con il 50,1% dei voti venne definita «legge truffa». Oggi, con ipocrisia linguistica, si chiama «premio di maggioranza». Altro che potere legislativo! Il parlamento diventerà – come osserva A. Fabozzi sul «manifesto» (02.04.2014) – la cinghia di trasmissione del governo; e la Camera ne dovrà approvare i provvedimenti di legge entro un massimo di 60 giorni, pena la messa in atto della “ghigliottina”.

Quanto all’abolizione delle Province, A. Saitta, presidente della Provincia di Torino e dell’Unione delle province italiane (Upi) dice:

altro che abolizione […], che non esiste, la verità è che ancora una volta ha vinto la grande burocrazia dello Stato. [E, sul «manifesto» (27.03.2014) dichiara:] rimarranno tutte e 107 le province italiane. Il testo parla di riforma e non di abolizione. Verranno ridotte alcune funzioni con l’obiettivo di assegnarle alle Regioni; il ddl non prevede tempi brevi per il passaggio di consegne, […] si andrà avanti di proroga in proroga. […] Cambierà solo il sistema elettorale: il consiglio provinciale non sarà piú eletto dal popolo ma dai consiglieri comunali di tutti i Comuni di una stessa Provincia. […] Il presidente della Provincia dovrà essere un sindaco di una città e non percepirà indennità supplementari, e anche i consiglieri provinciali saranno scelti tra i consiglieri comunali delle città comprese in una Provincia.

Il risparmio sugli stipendi sarebbe di circa 32 milioni di euro. Una cifra molto modesta. Ora, le Province svolgono funzioni piú ampie rispetto ai Comuni: vedi solo l’appalto per il riscaldamento degli edifici scolastici, attualmente unico per tutta una Provincia ma destinato ad aumentare con il proliferare dei centri di spesa. È anche probabile una confusione di competenze sull’erogazione dei servizi essenziali, come scuole e strade, peraltro già adesso a rischio. Come continua Saitta,

già adesso non abbiamo piú risorse per mantenere in sicurezza le scuole e le strade, e nella fase transitoria prevedo disastri.

A tutto questo è sotteso il contenzioso dei trasferimenti statali.

Per non fare riforme vere, che avrebbero scontentato gli alti burocrati dello Stato, ci siamo contentati di intervenire sull’1,2% della spesa pubblica [… ossia, il costo delle province, n.d.r.] invece di toccare il 60% di spesa dell’amministrazione centrale. Questo è il punto. Il tema è la riorganizzazione degli uffici periferici dello Stato.

La proposta avanzata dall’Upi era, invece, di dimezzare il numero delle Province, accorpando prefettura, motorizzazione, nonché tutti gli uffici dell’apparato statale. Comunque, come riferisce C. Bertini su «la Stampa» (01. 04.2014), Renzi proclama:

questa legge è una grandissima svolta per le istituzioni. Matteo Renzi si gioca tutto sulla legge costituzionale approvata «all’unanimità» dal Consiglio dei ministri, che abolisce il Senato elettivo, il C.n.e.l. (Centro nazionale dell’economia e del lavoro) e riduce le competenze delle Regioni. [… Una] rivoluzione che «vale da sola una carriera politica» che Renzi vorrebbe veder approvata prima delle europee, salvo far saltare il banco, alias andare a elezioni anticipate. Se verrà approvata questa riforma, sarà «la sola Camera [che potrà dare e togliere] fiducia al governo [… nonché varare] le leggi, ivi compresa quella di bilancio. [Nel nuovo] Parlamento si lavorerà senza vincolo di mandato e senza «rappresentare la nazione». Il Senato delle Autonomie avrà la sola iniziativa legislativa in materia di autonomie, appunto, ma potrà proporre leggi alla Camera, che [… avrà] sei mesi di tempo per decidere in materia.

E questo Senato delle Autonomie?

Al Senato delle Autonomie è stata restituita la facoltà [superando il disegno di legge del 12 marzo u.s., n.d.r.] di legiferare «in materia regionale» […] e di «armonizzazione dei provvedimenti a data certa entro 60 giorni».

Contro tali «provvedimenti a data certa», da sommare alla decretazione d’urgenza, alcuni costituzionalisti hanno avanzato riserve e messo in guardia contro la deriva autoritaria. L’articolista della «Stampa» sottolinea come il governo disponga – grazie a queste modifiche – di due strumenti forti, provvedimenti a data certa e decretazione d’urgenza, che conferiranno un peso preminente nei confronti della Camera, dato che, con il Senato non piú una seconda camera, manca la possibilità di bilanciare il potere del governo: anzi viene costituzionalizzato l’obbligo di omogeneità nei testi dei decreti e dunque l’abolizione dei maxiemendamenti.

Il futuro Senato non avrà eletti: i membri saranno 148, di cui 21 a vita, scelti dal presidente della Repubblica (tra questi gli ex capi di Stato e gli attuali senatori a vita) – uno in piú di quanti occorrono per costituire un gruppo parlamentare -, e 127 rappresentanti dei Consigli regionali e dei sindaci – è prevista la composizione paritaria di tutte le Regioni, e tra le Regioni e i sindaci. Aboliti ivoto di fiducia, voto sul bilancio, elezione diretta e indennità, sono ridotte anche le competenze.

Resta un mistero perché mai i cittadini dovrebbero sentirsi piú rappresentati da personaggi non eletti da loro – benché tramite i partiti –, ma di fatto cooptati, comunque si rigiri la questione.

Sono errate le critiche di “inefficienza” e “solo chiacchiere” a Renzi & Co., come è anche errato riprendere l’adagio «la montagna ha partorito un topolino».

No, è vero, invece, il fatto che il frutto di tale parto sia un mostro famelico, che si appresta a divorare ogni residuo di quanto è detto «democrazia», pur nel “sistema” liberale.

 CB

 

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