Ciò che ha reso a lungo difficile afferrare l’unità filosofica del liberalismo economico e del liberalismo culturale è il fatto che, a partire dalla crisi del 1929 (e poi sotto le esigenze stringenti dell’economia di guerra e dell’ulteriore ricostruzione), il sistema capitalistico ha conosciuto per diversi decenni un periodo di relativa regolamentazione, cioè di limitata pianificazione (periodo di cui il liberalismo keynesiano e “socialdemocratico” è l’espressione ideologica piú conosciuta). A un punto tale che lo stesso Orwell – alla stessa maniera, d’altronde, di Karl Polanyi – riteneva il ritorno al laisser faire originario come un’utopia definitivamente sorpassata (donde la sua perplessità di fronte agli scritti di Von Hayek).
In realtà, è solo nel corso degli anni settanta (e nel quadro della crisi dell’accumulazione «keynesiana» del capitale e del progressivo sprofondamento dell’impero sovietico) che il capitalismo liberale ha potuto riprendere sulle sue basi logiche il modo di sviluppo che era il suo dalle origini (ed è dunque assurdo, da questo punto di vista, considerarlo come «neoliberalismo»).
È evidentemente in questo contesto, di un capitalismo ritornato alla sua essenza primaria (ma, questa volta, deregolato su scala mondiale e liberato di tutti i suoi compromessi storici anteriori, non soltanto con la cultura aristocratica, ma ugualmente con le ideologie nazionali, repubblicane e socialdemocratiche), che si può comprendere lo scatenamento contemporaneo dell’individualismo narcisistico e del liberalismo culturale, che ne è la traduzione logica[1].
[1] J.-Cl. Michéa, Les mystères de la gauche, Paris, Flammarion, 20142, Scolio O, n. 2, pp. 120-121 [corsivi dell’autore; trad. it. di M. Monforte].