L’idea che la difesa delle libertà fondamentali – quelle individuali come quelle collettive – non potrebbe ridursi a «un’esagerazione ciarlatanesca della libertà borghese fino all’indipendenza assoluta dell’individuo» ([come diceva] Engels […]), è diventata perfettamente incomprensibile alla maggior parte degli intellettuali moderni, i quali […] neanche piú si immaginano che questa difesa possa avere un altro fondamento possibile se non il diritto liberale naturale (ed estendibile all’infinito) «di tutti su tutto» (ius omnium in omnia). E ciò significa dimenticare che esiste precisamente una maniera specificamente socialista – e anarchica – di fondare queste libertà indispensabili (e che nuove libertà, ivi comprese quelle “socialitarie”, possono evidentemente essere riprese e difese su questa base filosofica), derivandole nel contempo da una rappresentazione dell’essere umano come «animale politico» e da quella di società libera, egualitaria e decente ([come diceva] Orwell). E [ciò significa dimenticare], d’altra parte, che è esistita a lungo una teoria repubblicana particolarmente vivace di queste libertà fondamentali – fondata sull’idea di «bene comune» e di «sovranità popolare» -, proprio contro la quale i liberali avevano dovuto combattere senza cessa per tutto il XIII secolo […][1].
[…] George Orwell […] si situava […] all’intersezione di queste due ultime correnti. È cosí, per esempio, che la sua difesa incondizionata della libertà di pensiero e di espressione (una libertà che gli intellettuali di sinistra contemporanei tendono sempre piú a considerare come un «delitto», punibile per legge) non si fondava sulla teoria liberale dell’«origine naturale» dei diritti dell’uomo, ma precisamente sulle «regole ammesse dall’antica libertà» repubblicana (by the know rules of ancient liberty) – come ricordava egli stesso, riferendosi esplicitamente alla formula di John Milton. Formula in cui – sottolineava – «la parola antica pone in evidenza il fatto che la libertà di pensiero è una tradizione profondamente radicata, senza dubbio indissociabile da ciò che fa la specificità della civiltà occidentale» (G. Orwell, «Prefazione» del 1945 a La fattoria degli animali).
E se, agli occhi di Orwell, questa libertà di pensiero e di espressione (proprio come le abitudini di onestà intellettuale che ne sono la condizione) si trovava, [ieri come] oggi, terribilmente minacciata, era [ed è] appunto perché «un numero sempre maggiore dei nostri intellettuali stanno rinnegando questa tradizione. Hanno adottato la teoria secondo cui non è in base ai proprio meriti ma in funzione dell’opportunità politica che un libro deve essere pubblicato o no, lodato o biasimato. E altri, che in realtà non condividono questa maniera di vedere, l’accettano per semplice viltà» (G. Orwell, ibidem)[2].