Tornato dalla Scuola estiva della cattedra Unesco di Malaga (Spagna) come relatore a un convegno sul tema «L’impegno degli intellettuali», Angelo d’Orsi si esprime («il manifesto», 23.07.2014) in modo duro e circostanziato sul conflitto a Gaza. Non si capacita
del totale disinteressamento, salvo pochissime eccezioni, del “mondo della cultura” [a fronte delle] notizie sempre piú angosciose provenienti dalla terra martire di Palestina, [in un contesto di] assoluta “distrazione” del ceto politico rispetto a quei fatti di sconvolgente gravità.
In precedenza – invasione del Libano, guerra contro Hezbollah (luglio 2006), bombardamento di Gaza (dicembre 2008-gennaio 2009) –
fiorirono appelli, e la mobilitazione di professori giornalisti, letterati, scienziati, artisti fu vivace e intensa [nel denunciare] le responsabilità di Israele, la sua proterva volontà di schiacciare i palestinesi, invece di riconoscere loro il diritto non solo a una patria, ma alla vita.
Oggi, invece, silenzio:
la macchina schiacciasassi di Matteo Renzi, nel suo micidiale combinato disposto con Giorgio Napolitano, si sta rivelando un efficacissimo apparato egemonico [mentre l’intellettualità] “democratica” facente capo per il 90% al Pd, appare allineata e coperta.
Per non parlare dei media, dai grandi giornali, la “progressista” «Repubblica» in testa,
organismi sempre piú perfettamente oliati di sostegno al governo da un canto, e di adeguamento alla politica estera decisa da un pugno di signori e signore tra Washington, Londra, Bruxelles e Berlino [(Hollande ne prenda atto, Parigi ormai] non conta un fico) [mentre] della radiotelevisione non vale neppure la pena di parlare [perché, come è già avvenuto per l’Ucraina,] si sono raggiunti vertici non di disinformazione, ma di semplice rovesciamento della verità. [ E la] categoria del “rovescismo”, che mi vanto di aver creato per la storiografia iper-revisionista, va ormai estesa ai media.
In un tempo non lontano, «l’Unità», che ora balbetta, assieme a «Rifondazione» (defunta), avrebbero preso posizione – sia pur con tutti i limiti –, osserva Angelo d’Orsi. Ma quali le ragioni di fondo del conflitto? In tale «deprimente panorama all’insegna del piú esangue conformismo», D’Orsi si riferisce a Manlio Dinucci, Gaza, il gas nel mirino («il manifesto» 15.07.2014), che dice:
per capire qual è uno degli obiettivi dell’attacco israeliano a Gaza, bisogna andare in profondità, esattamente a 600 metri sotto il livello del mare, 30 km al largo delle sue coste. Qui, nelle acque territoriali palestinesi, c’è un grosso giacimento di gas naturale, Gaza Marine, stimato in 30 miliardi di metri cubi. del valore di miliardi di dollari. Altri giacimenti di gas e petrolio, secondo una carta redatta dalla U.S. Geological Survey (agenzia del governo degli Stati uniti), si trovano sulla terraferma a Gaza e in Cisgiordania. Nel 1999, con un accordo firmato da Yasser Arafat, l’Autorità palestinese affida lo sfruttamento di Gaza Marine a un consorzio formato da British Gas Group e Consolidated Contractors (compagnia privata palestinese) rispettivamente col 60% e il 30% delle quote, nel quale il fondo d’investimento dell’Autorità ha una quota del 10%. Vengono perforati due pozzi, Gaza Marine-1 e Gaza Marine-2. Essi però non entrano mai in funzione, poiché sono bloccati da Israele, che pretende di avere tutto il gas a prezzi stracciati. Tramite l’ex premier Tony Blair, inviato del “Quartetto per il Medio Oriente”, viene preparato un accordo con Israele che toglie ai palestinesi i tre quarti dei futuri introiti del gas, versando la parte loro spettante in un conto internazionale controllato da Washington e Londra. Ma, subito dopo aver vinto le elezioni nel 2006, Hamas rifiuta l’accordo, definendolo un furto, e chiede una sua rinegoziazione. Nel 2007, l’attuale ministro della difesa Moshe Ya’alon avverte che «il gas non può essere estratto senza una operazione militare che sradichi il controllo di Hamas a Gaza». Nel 2008, Israele lancia l’operazione «Piombo Fuso» contro Gaza. Nel settembre 2012 l’Autorità palestinese annuncia che, nonostante l’opposizione di Hamas, ha ripreso i negoziati sul gas con Israele. Due mesi dopo, l’ammissione della Palestina all’Onu quale «Stato osservatore non membro» rafforza la posizione dell’Autorità palestinese nei negoziati. Gaza Marine resta però bloccato, impedendo ai palestinesi di sfruttare la ricchezza naturale di cui dispongono. A questo punto l’Autorità palestinese imbocca un’altra strada. Il 23 gennaio 2014, nell’incontro del presidente palestinese Abbas col presidente russo Putin, viene discussa la possibilità di affidare alla russa Gazprom lo sfruttamento del giacimento di gas nelle acque di Gaza. Lo annuncia l’agenzia Itar-Tass, sottolineando che Russia e Palestina intendono rafforzare la cooperazione nel settore energetico. In tale quadro, oltre allo sfruttamento del giacimento di Gaza, si prevede quello di un giacimento petrolifero nei pressi della città palestinese di Ramallah in Cisgiordania. Nella stessa zona la società russa Technopromexport è pronta a partecipare alla costruzione di un impianto termoelettrico della potenza di 200 MW. La formazione del nuovo governo palestinese di unità nazionale, il 2 giugno 2014, rafforza la possibilità che l’accordo tra Palestina e Russia vada in porto. Dieci giorni dopo, il 12 giugno, avviene il rapimento dei tre giovani israeliani, che vengono trovati uccisi il 30 giugno: il puntuale casus belli che innesca l’operazione «Barriera protettiva» contro Gaza. Operazione che rientra nella strategia di Tel Aviv, mirante a impadronirsi anche delle riserve energetiche dell’intero Bacino di levante, comprese quelle palestinesi, libanesi e siriane, e in quella di Washington, che, sostenendo Israele, mira al controllo dell’intero Medio Oriente, impedendo che la Russia riacquisti influenza nella regione. Una miscela esplosiva, le cui vittime sono ancora una volta i palestinesi.
Angelo d’Orsi continua, nel suo intervento:
qui mi preme […] evidenziare, con sgomento, che il “silenzio degli intellettuali” […] è divenuto non soltanto una condizione di fatto, ma una posizione “teorica” che, accanto a quella dell’equidistanza, sta trovando i suoi alfieri. [Dopo la settimana spagnola] di intense discussioni sulla necessità di impegnarsi, a cominciare dal mondo universitario [il Nostro non si capacita,] leggendo lacerti di pensiero che configurano la nascita di una sorta di “Partito del Silenzio”. [Silenzio che non è solo opportunistico rifiuto di esporsi, a fronte della] pressione della lobby sionista [che] è fortissima e induce a tacere se proprio non vuoi esprimere la tua gioiosa adesione alla “necessità” degli israeliani “di difendersi”. Il silenzio, oggi, […] è divenuto una divisa, una bandiera, un’ideologia. Quei pochi che parlano, che osano aprire bocca, premettono il riconoscimento delle ragioni di Israele e condannano in primo luogo il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi ebrei […] (si tralascia di dire che si tratta di tre giovani coloni, ossia occupanti, con la violenza dell’esercito, terra palestinese) e il lancio di raggi Kassam contro le città del Sud di Israele, e cercano poi di cavarsela con un colpo al cerchio e uno alla botte. Ma attenzione, se il colpo alla botte israeliana appare troppo sonoro, ecco che si scatena l’inferno, non di fuoco, come su Gaza, ma di parole.
Basta leggere gli articoli di commento on line – tutti uguali -,
mentre un gran lavorio di informazione al contrario, di diretta provenienza da fonti israeliane, viene dispiegato dagli innumerevoli dispensatori di verità nostrani.
Valga come esempio Claudio Magris, ricoperto di ingiurie quando, alcuni giorni fa, ha espresso qualche prudente considerazione sulle ragioni dei palestinesi sul «Corriere della sera». Il sistema funziona, dice d’Orsi, che, piú che dal silenzio per ricatto, è preoccupato dal silenzio per scelta.
Il silenzio teorizzato come terza via, tra coloro che incondizionatamente sono con Israele, e gli altri, quelli che sostengono la causa palestinese. Il silenzio come rispetto del dolore, o come via della ragionevolezza: contro gli opposti estremismi.
In proposito, si ricorda il caso di Roberto Saviano, che
cita Euromaidan per denunciare il tardivo schierarsi, anche italiano, dalla parte giusta, che per lui […] è quella dei golpisti nazisti di Kiev. Ora, a suo dire, occorre schierarsi […] «dalla parte della pace»: i “terroristi” di Hamas sono indicati come il primo nemico della pace, ovviamente. […] È la linea (solita) di Adriano Sofri («La Repubblica», 17 luglio), altro guerriero democratico, che ripartisce torti e ragioni […,] e invoca implicitamente silenzio, discrezione, rispetto. Ma si può confondere la pietà umana, doverosa, col giudizio politico? Si può trasformare l’opinione in saggezza? Sul medesimo giornale, Michele Serra sostiene che occorre tacere, che si devono abbassare la voce e gli occhi davanti alla «tragedia» della guerra.
E d’Orsi obietta:
ma quale tragedia, qui abbiamo la politica, e la politica ha degli attori, dei responsabili: come in passato la divisione tra vittime e carnefici è netta ed evidente (so che qualche anima bella mi accuserà di semplificare: la cosa è piú complessa, non si può dividere cosí nettamente, ciascuna delle due parti ha un pezzo di responsabilità e via di seguito) […] Dal ceto intellettuale mi aspetto assai piú che l’indignazione, mi aspetto una rivolta morale: tutti, se non in perfetta malafede, oggi sanno quanta verità ci sono nelle parole di Primo Levi: «quello che non potrò mai perdonare ai nazisti è di averci fatto diventare come loro». […] La tragedia è di vedere oggi le vittime diventate carnefici. E se questo era evidente a lui negli anni ottanta del Novecento, cosa potrebbe mai dire oggi, davanti a quei corpi straziati di bimbi, alla vita cancellata in tutta la striscia di Gaza, davanti a quelle macerie che occupano, quartiere dopo quartiere, isolato dopo isolato, di ora in ora, lo spazio affollato di case e persone? Se non denunciamo le menzogne dei media, le complicità dei governi occidentali con quello di Tel Aviv, in particolare l’oscena serie di accordi (militari, innanzitutto) dell’Italia con Israele … Se ci consegniamo al silenzio, oggi, davanti a un’ingiustizia cosí grave, cosí palese, cosí drammatica, quando parleremo? Insomma, non intendo tacere.
CB