Da: Jean Claude Michéa, L’enseignement de l’ignorance, Paris, Climats, 2006, pp. 19-29.
II
[…]
È […] l’invenzione dell’economia politica, cioè di una “scienza” della «ricchezza delle nazioni», supposta conferire un fondamento, infine indiscutibile e razionale, alle decisioni dei Principi (e, in quanto tale, presa sul serio da costoro), che costituisce la condizione simbolica maggiore, senza la quale nessun “sistema” capitalistico avrebbe potuto essere sperimentato[1]. Al contrario, è l’assenza di tale mito fondatore che spiega come altre società[2], quale che sia stato il grado di sviluppo mercantile che abbiano potuto conoscere, abbiano ignorato questa figura propriamente occidentale dello Stato sapiente (il futuro governo scientifico dei positivisti), la sola che poteva fondare la decisione politica di edificare progressivamente le condizioni sperimentali dell’ipotesi economica – detto altrimenti, del “sistema” capitalistico.
È perciò che quest’ultimo non comincia la sua lunga e resistibile storia che nel XVIII sec., e questo a favore delle contraddizioni specifiche che travagliavano l’apparato di Stato delle monarchie europee[3].
III
Il dispositivo teorico dell’Economia politica si poggia su un’idea nel contempo semplice e ingegnosa: quella per cui sarebbe sufficiente, per assicurare la Pace, la Prosperità e la Felicità – tre sogni immemorabili dell’umanità –, abolire tutto ciò che, negli usi, costumi, leggi, delle società esistenti, ostacoli il gioco “naturale” del Mercato, cioè il suo funzionamento senza intralci né tempi morti.
Per far risaltare questa ipotesi e formulare “leggi” che abbiano il rigore apparente degli enunciati newtoniani, l’economista è inevitabilmente condotto, in una maniera o nell’altra, a descrivere gli esseri umani come «atomi sociali» (o «monadi»), indefinitamente mobili e mossi da una sola considerazione: quella del proprio interesse ben compreso[4].
La validità teorica e pratica di questa costruzione dipende dunque, naturalmente, dalla propensione reale degli individui a funzionare come esige la teoria, cioè in maniera effettivamente nomade e atomizzata[5]. È perciò che la messa in opera dell’economia liberale (si tratta di un pleonasmo) non presuppone solo l’istituzione, a prima vista paradossale, di un’autorità politica sufficientemente potente per spezzare spietatamente tutti gli ostacoli che la religione, il diritto e il costume oppongono al “disincastonamento” del mercato e alla sua unificazione senza frontiere. Richiede anche che si dia un’esistenza pratica alla forma antropologica corrispondente: quella dell’individuo interamente “razionale”, cioè egoista e calcolatore, e, a questo titolo, liberato da «pregiudizi», «superstizioni» o «arcaismi», che – secondo l’ipotesi liberale – tutte le specie empiricamente esistenti di filiazione, di appartenenza o di radicamento, generano necessariamente.
Come si può constatare, il progetto della “scienza” economica – cioè, di fatto, secondo l’espressione di Paul Lafargue, il progetto della religione del capitale – non è, dunque, separabile dalle rappresentazioni moderne della ragione come strumento privilegiato del calcolo egoistico – detto altrimenti, come autorità naturale capace di chiarire al soggetto il «proprio utile» (Spinoza) e di ordinare a proprio profitto il tumulto delle passioni. È questa idea filosofica – ben differente dal Lógos antico – che consente di comprendere quell’inquietante notazione di Hume, secondo cui «non è contrario alla ragione preferire la distruzione del mondo intero a un graffio sul mio dito»
[6]. Spiega parimenti perché Engels ha potuto vedere nel trionfo di questa ragione il «regno ideale della borghesia»[7].
IV
[…]
Si comprende, ora, la terribile originalità del paradigma capitalistico, al cui regno tutte le comunità del mondo sono ormai invitate a piegarsi. L’interesse egoistico, nel quale l’Economia politica tende necessariamente a vedere l’unico motore razionale delle condotte umane, è precisamente la sola ragione di agire che non possa mai costituire di per sé ciò che si chiama, secondo Nietzsche, un valore.
In effetti, un valore (che si tratti di onore, di amicizia, di compassione, di devozione a un’opera o a una comunità, e, in maniera generale, di ogni forma di solidarietà o di civiltà[8]) è, per definizione, ciò nel cui nome un soggetto può decidere, quando le circostanze lo esigano, di sacrificare tutti o parte dei suoi interessi, oppure, in certe condizioni, la sua stessa vita. In altri termini, la disposizione dell’uomo al sacrificio, alla rinuncia o al dono, è la condizione maggiore nella quale si può conferire del senso alla propria vita, altrimenti definita dai soli codici della biologia.
D’altronde, come si sa, a differenza dell’animale, «l’uomo non nasce portando in sé il senso definito della propria vita»[9], per cui si deve necessariamente concludere che nessuna società umana è possibile laddove non siano stati immaginati e istituiti «i montaggi normativi grazie ai quali i soggetti delle generazioni successive pervengano allo statuto di umani»[10].
È dunque in primo luogo per ragioni di struttura che non esiste, né potrà mai esistere, una «società capitalistica» nel vero senso del termine: si troverebbe qui il nome di una pura impossibilità antropologica. Un “sistema” le cui condizioni ideali di funzionamento non fanno appello, per definizione, che alla logica dell’interesse ben compreso, è, in effetti, nell’impossibilità costitutiva di elaborare i significanti-portanti che ogni comunità umana richiede per perseverare nel suo essere[11].
Di fatto, il sistema capitalistico ha potuto venire storicamente sperimentato in seno alle civiltà occidentali, e poi svilupparsi nella maniera che si sa, solo perché, a ogni tappa della sua storia, ha attinto ai valori e agli habitus che erano a esso necessari in tutto un tesoro di civiltà – tanto antiche quanto moderne –, che, di per sé, per la sua natura, era incapace di edificare. Come ricorda a ragione Castoriadis, «il capitalismo ha potuto funzionare solo perché ha ereditato una serie di tipi antropologici che non ha creato e non avrebbe potuto creare esso stesso: dei giudici incorruttibili, dei funzionari integri e weberiani, degli educatori che si consacrano alla loro vocazione, degli operai che hanno un minimo di coscienza professionale, etc. Questi tipi non sorgono e non possono sorgere da se stessi, sono stati creati nei periodi storici anteriori»[12].
Un “sistema” capitalistico è, dunque, storicamente vitale – e anche, sotto questo aspetto, capace di generalizzare all’insieme della società certi effetti incontestabilmente emancipatori dello scambio mercantile – soltanto se le comunità in cui il suo regno viene sperimentato sono sufficientemente solide e vive per contenere da se stesse gli effetti antropologicamente distruttivi dell’Economia autonomizzata. Se, al contrario, una qualsiasi potenza storica viene realmente a proporre di questo “sistema” altra cosa che applicazioni parziali e limitate: se, in altri termini, l’ipotesi economica cessa di essere quella che è stata […], ossia un’ingegnosa utopia, allora l’umanità si deve preparare ad affrontare una vita innominabile[13] e nocività infinite.
La storia degli ultimi trent’anni[14] è precisamente quella degli sforzi prometeici che le nuove élites mondiali dispiegano per realizzare a qualunque prezzo questa società impossibile.
(Trad. dal testo francese di Mario Monforte.)
[1] L’influenza dell’ideale newtoniano sul percorso di Adam Smith è stato stabilito da molto tempo. Altra è la questione di sapere se il modello epistemologico a cui si riferisce il filosofo scozzese (come, d’altronde, la maggioranza dei pensatori dell’epoca) corrisponda alla pratica effettiva di Newton: Jan Marejko pensa di no, in base a un’argomentazione che mi pare solida (cfr. Cosmologie et politique, Paris, L’Âge d’homme, 1989).
[2] Nel caso della Cina, gli ostacoli culturali all’apparizione della scienza sperimentale e del correlato concetto di «legge della natura» sono stati ammirevolmente studiati da Joseph Needham (cfr. Science et civilization in China, 1954).
[3] In Francia i primi tentativi di sperimentare l’ipotesi capitalistica (la deregolamentazione del commercio dei cereali) ebbero, cosí, luogo fra il 1764 e il 1770. Si troverà un’analisi notevole di questa esperienza fondatrice nella prefazione di Michel Carillon a L’apologie de l’abbé Galiani di Diderot (Paris, Ed. Agone, 1998).
[4] «Se l’universo fisico è sottomesso alle leggi del movimento, l’universo morale è non di meno soggetto a quelle dell’interesse» (Helvetius, De l’Esprit, 1758).
[5] «Un mercante, come si è molto ben detto, non è necessariamente cittadino di alcun paese in particolare; in gran parte, gli è indifferente in quale luogo tenga il suo commercio e basta solo il piú leggero disgusto perché si decida a portare il suo capitale da un paese a un altro e, con esso, tutta l’industria che questo capitale metteva in attività», Adam Smith, Ricerche sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Paris, Gallimard, p. 231. Sul versante del salariato ideale, la virtú complementare sarà evidentemente la famosa «mobilità geografica», cioè la disponibilità a rompere, subito e senza rimpianti, tutti i legami che possono unire un essere umano a un luogo, a una cultura e ad altri esseri umani. Non è molto difficile, con un po’ di abilità universitaria, presentare questa incapacità di amare e queste disposizioni all’ingratitudine come l’essenza stessa della “libertà”.
[6] Hume, Trattato della natura umana. Questo potrebbe essere il motto dei mercati finanziari.
[7] Engels, Anti-Duhring. D’altronde, si conosce la celebre analisi di Adam Smith: «non è dalla benevolenza del macellaio, del mercante di birra o del fornaio che ci attendiamo la nostra cena, ma proprio dalla cura che apportano ai loro interessi. Non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo», Ricerche sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni cit., pp. 48-49.
[8] Declinati in maniera moderna, questi valori corrispondono assai bene a ciò che Orwell chiama, a partire dal suo saggio su Dickens, la common decency, cioè questo insieme di disposizioni alla benevolenza e alla dirittura morale che costituiscono, secondo lui, l’indispensabile infrastruttura dei mores di ogni società giusta («lavorare alla costruzione di una società in cui la common decency sarà di nuovo possibile», questo è – scrive cosí nell’ottobre del 1941 – il compito politico fondamentale). I fondamenti antropologici di questa common decency sono […] in parte spiegabili alla luce del Saggio sul dono di Marcel Mauss. Si troveranno ugualmente dei chiarimenti, un po’ differenti, ma del tutto necessari, nei lavori di René Girard e di Pierre Legendre. Segnaliamo, infine, un saggio notevole per sviluppare filosoficamente il concetto orwelliano di common decency: Avisaï Margalit, La société décente, Paris, Climats, 1999.
[9] C. Castoriadis, L’institution imaginaire de la société, 1975, p. 35.
[10] Pierre Legendre, Le crime du caporal Lortie, 1989. L’opera di Pierre Legendre è, in Francia, uno dei principali monumenti intellettuali di questi ultimi trent’anni. La migliore introduzione a questo pensiero difficile è, senza dubbio, Sur la question dogmatique en Occident, Paris, Fayard, 1999.
[11] Una società capitalistica conforme al proprio concetto corrisponderebbe filosoficamente al nuovo stato di natura che, secondo Rousseau, è la conclusione obbligata di una società di ineguaglianza totale. «È qui che tutto si riconduce alla sola legge del piú forte e di conseguenza a un nuovo stato di natura, differente da quello con cui abbiamo incominciato, nel fatto che l’uno era lo stato di natura nella sua purezza e quest’ultimo è il frutto di un eccesso di corruzione» (Discorso sull’origine dell’ineguaglianza, 2° parte). Tuttavia, è necessario notare che esiste, nella letteratura antropologica, almeno un caso di comunità la cui desocializzazione è stata spinta particolarmente lontano: quello degli Iks, cacciati dal loro territorio d’origine dallo Stato ugandese e il cui processo di decivilizzazione è stato magistralmente descritto, nel 1972, da Colin Turnbull. Alla fine della sua spaventosa inchiesta, Turnbull, d’altronde, non scarta l’ipotesi che noi possiamo a nostra volta, un giorno, diventare «come gli Iks, dei nomadi, mobili, soltanto preoccupati di espedienti» (Les Iks. Survivre par la cruauté, Paris, Plon, 1987, p. 358).
[12] C. Castoriadis, Le carrefours du labyrinthe, t. IV, 1996. Si trovano analisi simili in Lucien Goldman, Le dieu caché, 1959, p. 42.
[13] Cfr. Michel Bounan La vie innommable, Paris, Allia, 1993, e Baudouin de Bodinat, La vie sur terre, «Encyclopédie de nuisances», 1996.
[14] [Il testo di Michéa è del 2006, n.d.r.]