L’asse Usa–Arabia Saudita. Nome in codice «Timber Sycamore»: cosí si chiama l’operazione di armamento e addestramento dei «ribelli» in Siria, «autorizzata segretamente dal presidente Obama nel 2013»; lo documenta un’inchiesta pubblicata domenica dal «New York Times».
Quando è stata incaricata dal presidente di effettuare questa operazione coperta, «la Cia sapeva già di avere un partner disposto a finanziarla: l’Arabia Saudita». Insieme al Qatar, «ha fornito armi e diversi miliardi di dollari, mentre la Cia ha diretto l’addestramento dei ribelli». La fornitura di armi ai «ribelli», compresi «gruppi radicali come Al Qaeda», era iniziata nell’estate 2012 quando, attraverso una rete predisposta dalla Cia, agenti sauditi avevano comprato in Croazia e nell’Europa orientale migliaia di fucili d’assalto Ak-47 con milioni di proiettili e i qatariani avevano infilato in Siria, attraverso la Turchia, missili portatili cinesi Fn-6 acquistati sul mercato internazionale.
Poiché la fornitura di armi avveniva a ruota libera, alla fine del 2012 il direttore della Cia David Petraeus convocava gli alleati in Giordania, imponendo un piú stretto controllo dell’Agenzia sull’operazione. Pochi mesi dopo, primavera del 2013, Obama autorizzava la Cia ad addestrare i «ribelli» in una base in Giordania, affiancata da una in Qatar, e a fornire loro armi tra cui missili anticarro Tow. Sempre con i miliardi del «maggiore contribuente», l’Arabia Saudita. Non nuova a tali operazioni.
Negli anni settanta e ottanta, aiutò la Cia in una serie di operazioni coperte. In Africa, in particolare in Angola dove, con i finanziamenti sauditi, la Cia sosteneva i ribelli contro il governo alleato dell’Urss. In Afghanistan, dove «per armare i mujaheddin contro i sovietici, gli Stati uniti lanciarono un’operazione del costo annuo di milioni di dollari, che i sauditi pagarono dollaro su dollaro attraverso un conto della Cia in una banca svizzera». In Nicaragua, quando l’amministrazione Reagan varò il piano per aiutare i contras, i sauditi finanziarono l’operazione della Cia con 32 milioni di dollari attraverso una banca delle isole Cayman. Attraverso queste operazioni segrete, fino all’attuale in Siria, si è cementata «la lunga relazione tra i servizi segreti degli Stati uniti e dell’Arabia Saudita».
Nonostante il «riavvicinamento diplomatico» di Washington all’Iran, non gradito a Riyad, «l’alleanza persiste, tenuta a galla su un mare di denaro saudita e sul riconoscimento del mutuo interesse». Ciò spiega perché «gli Stati uniti sono riluttanti a criticare l’Arabia Saudita per la violazione dei diritti umani, il trattamento delle donne e il sostegno all’ala estremista dell’Islam, il wahabismo, che ispira molti gruppi terroristi», e perché «Obama non ha condannato l’Arabia Saudita per la decapitazione di Sheikh Nimr al-Nimr , il dissidente sciita che aveva sfidato la famiglia reale».
Si aggiunge il fatto, di cui il «New York Times» non parla, che il segretario di stato John kerry, in visita a Riyad il 23 gennaio, ha ribadito che «nello Yemen, dove l’insurrezione Houthi minaccia l’Arabia Saudita, gli Usa sono a fianco degli amici sauditi». Gli amici che da quasi un anno fanno strage di civili nello Yemen, bombardando anche gli ospedali, aiutati dagli Usa che forniscono loro intelligence (ossia indicazione degli obiettivi da colpire), armi (tra cui bombe a grappolo) e sostegno logistico (tra cui il rifornimento in volo dei cacciabombardieri sauditi).
Gli stessi amici che il premier Renzi ha ufficialmente incontrato lo scorso novembre a Riyad, garantendo loro il sostegno e le bombe dell’Italia «nella comune lotta al terrorismo». (M. Dinucci, «il manifesto», 26.01.2016)
Sulla Libia niente è sicuro, nemmeno le cattive notizie. «Non so come spiegarmi il pasticcio libico» scrive un lettore a Furio Colombo sul «Fatto» (20.01.2016) alludendo alla «confusione italiana (si interviene, quando, come, con chi, contro chi, su richiesta di chi?) e a quella europea (continue voci di attacchi imminenti di potenze, che al momento opportuno non si presentano). E nessuna idea politica». «La sequenza» – risponde Colombo – «purtroppo, non tranquillizza. Comincia con una misteriosa indicazione dell’Italia come capo-cordata di una missione di soccorso – se necessario anche militare – in Libia: chi ha detto che tocca all’Italia guidare le operazioni anti-terrorismo in Libia (logico per vicinanza, ed esperienza; illogico e anzi impossibile per il passato coloniale)? Nessuna risposta, ma molte conferme compiaciute di varia origine (più cauto il ministro degli Esteri, piú audace e anzi impaziente la signora ministra della Difesa). Segue un elenco, ripetutamente fornito, di armamenti italiani già disponibili, in mare, in cielo, in terra proprio alle porte dell’Africa. Poi si entra nella fase diplomatica. In Marocco due personaggi di secondo piano dei due parlamenti libici, non si sa con quale sostegno alle spalle, ma certamente senza potere. Firmano un accordo che viene proclamato come la grande svolta. Per mostrare che tutto è vero, viene esibito il nome di Fayez al Sarraj “come primo ministro designato”. E viene annunciata una data di “formazione del nuovo governo entro pochi giorni”. Sarraj ha corso pericoli rocamboleschi ed è scampato a diversi attentati (compresi atterraggi impossibili, incontri negati e il numero più alto di morti in Libia per il ritorno in scena di kamikaze). Ma è riuscito a dire, con una encomiabile tenacia, che “i tempi che mi erano stati assegnati slittano”. Allora entra in campo la Germania, di solito assente dai teatri di guerra, dato il passato, che si dichiara pronta a intervenire, benché non si sappia in che modo e per che cosa. Accanto alla candidatura della Germania appare l’Italia, ma non piú come guida.
“ Però siamo pronti”, torna a dire la ministra della Difesa. Tutto ciò, su giornali e tv, appare affogato in commenti. Da un lato raccontano lo stato di frammentazione, la guerra per bande, la forza in espansione dell’Isis (che però rimane, a differenza di ciò che accade intorno alla Siria e dentro l’Iraq, incerto e senza riferimenti sicuri di uomini, armi, territorio, forse solo una sorta di scorribanda dimostrativa). Dall’altro fanno notare che l’intervento (che adesso è italo-tedesco ma a trazione rovesciata) ci sarà solo se richiesto da un governo libico unificato. Il governo unificato però slitta, e Fayez al Sarraj non può fare richieste. Continua a sostare ai bordi degli aeroporti sperando in bene. I due parlamenti intanto, come prima, non hanno rapporti, non c’è l’ombra del lavoro insieme, le bande sono sempre impegnate a combattersi, secondo confini o tribali o di vicinanza al petrolio, e l’Isis continua il suo gioco che, in mancanza di “intelligence”, nessuno può valutare o anche solo confermare. Niente è sicuro in questa storia, neppure le cattive notizie».
Apprendiamo intanto – per quanto si possa fare affidamento sulle notizie passate dalla stampa – che la coalizione sarebbe a guida americana, che gli Usa starebbero scaldando i motori, impazienti e contrariati dalla messa in discussione da parte di Haftar degli accordi che prevedono la formazione di un «governo nazionale» (sembra si fosse preferita tale definizione) e dunque dal possibile fallimento di tali accordi. Nell’“alleanza contro l’Isis” interverrebbe, accanto agli Stati uniti e all’Italia, tra gli altri, anche l’Arabia Saudita. Quanto meno un’alleanza ibrida. Contro chi e per fare che? Renzi se lo è chiesto, prima di trascinare l’Italia in questa funesta avventura con prevedibili esiti ancora più funesti?
CB