[Che cos’è] l’«essenziale»? […] «In verità, la sola cosa che importa è di arrivare a intendersi, una volta per tutte, su una critica della logica capitalistica che sia infine filosoficamente coerente [l’autore intende una critica che sia coerente e interconnessa su tutti i piani, partendo dai fondamenti e giungendo alle conseguenze, presenti – n.d.r.]. Detto altrimenti, su una critica che possa, da una parte, costruire realmente del senso per tutte le classi popolari, e anche, eventualmente, per tutti coloro – provenienti dalla borghesia o dalle classi medie superiori – che abbiano sinceramente a cuore di collegarsi alla lotta di queste ultime [le classi popolari – n.d.r.], senza però cercare di prenderne subito la direzione (si riconosce qui un problema ricorrente – dalla fine del XIX secolo […] – della maggior parte dei movimenti rivoluzionari). E che, dall’altra [parte], non si accontenti piú di denunciare ritualmente certi effetti del liberalismo economico [in francese; in italiano: liberismo – n.d.r.] (pudicamente ribattezzato, per l’occasione, «neoliberismo»), mentre nel contempo si lavora ad ampliare quelli [gli effetti] del liberalismo politico e culturale, che non ne costituiscono altro che il versante psicologico e ideologico. Una volta regolati questi preliminari, sarà allora veramente possibile lavorare a diffondere questa critica radicale – e il programma politico che a essa corrisponde – presso l’insieme delle classi popolari (che votino a destra o a sinistra, o che preferiscano andare a pescare nel giorno delle elezioni). A condizione, qui ancora, di non dimenticare mai – se si vuol condurre a buon fine il lavoro – che si tratterà in primo luogo di trovare le parole capaci di parlare all’insieme della gente ordinaria (coloro che hanno, nella vita, ben altri centri d’interesse e ben altre preoccupazioni che la sola politica, intesa nel senso stretto del termine), piuttosto che al “mondo ristretto” dei militanti di professione che, loro sí, effettivamente non vivono che per quest’ultima, ritrovandosi a non saper maneggiare che un linguaggio gergale, disperante, o anche, nei casi piú estremi, a frequentarsi solo fra di loro (ritrovandosi allora […] tagliati fuori dal popolo). Per il resto, si ammetterà volentieri […] che “quando le idee migliorano, il senso delle parole vi partecipa”. E, se è proprio questo il caso, si può essere sicuri che le classi popolari sapranno inventare da sé, venuto il tempo, il simboli di raccolta piú appropriati alle loro lotte»[1].
[1] J.-Cl. Michéa, Les mystères de la gauche, Paris, Flammarion, 20142, , pp. 57-58 (corsivi dell’autore; trad. it. di M. Monforte).